2011/04/30

L'uomo, la ragione, l'angoscia della morte


Antinomia vita-morte
Essere e non-dover essere

     È dilemma tragico quello che si trova a vivere l’uomo del XXI sec. Percepisce ragione e scienza come strumenti di potere, e si illude perciò di essere riuscito ad avere il dominio della natura, e forse anche dell’universo, in un futuro non lontano.
     Comprende, l’uomo, di essere una macchina ricca di potenzialità non ancora conosciute; mentre, allo stesso tempo, l’uomo prende atto che esiste un limite invalicabile, rappresentato dalla estrema precarietà del suo “hardware”, dalla struttura biochimica che lo costituisce, materia vivente che dovrà inevitabilmente dissolversi nel nulla.
    Il paradosso umano sta proprio nel vivere la vertigine di potere derivata dalla constatazione “obiettiva” dovuta alle scoperte forti della scienza, e parallelamente dall’essere costretto a percepirsi fuscello in balia di una sorte/natura, che ha deciso per lui tante cose, soprattutto quella del suo esser nato e del suo dover morire.
     L’esistente-uomo vive in sé la coscienza di questa contraddizione: coscienza di dover fare un salto nel nulla, un passaggio dall’essere al non-essere, dalla consapevolezza di esistere, all’idea che dovrà comunque e in ogni caso dissolversi nel nulla.
     Ed è proprio questa doppia informazione inviata al cervello (positivo = vivere + negativo = dover-morire) questo rapporto infame, inaccettabile, incomprensibile  (ingiusto?) fra chi (ma, Chi?) ha deciso per lui il prima e il dopo delle cose, i rapporti e le leggi della natura, e noi, esseri viventi e devianti che ci portiamo appresso la centralina della rassicurante presunzione di possedere una forza, un potere (potere di che?) nella logica consonante della ragione.
     Diversità di potenziale fra due sfere opposte e contrastanti (mondo fisico/razionale e mondo che sfugge al controllo della ragione) che fa andare in tilt il cervello, che non può, non riesce a contenere il sovraccarico della lacerante contraddizione (dell’essere e del non-dover-essere) che a livello logico si annullano e si azzerano.
     Una trappola mortale (mai l’aggettivo è stato più appropriato!) che però finisce di essere tale se si assume per buona l’ipotesi elevata a postulato dalle religioni, che la vita continuerà anche dopo la morte.
    Pia illusione che scioglie la contraddizione implicita nell’antinomia vita-morte, facendola rientrare nell’alveo di una logica coerente (?) e rassicurante che non conosce soluzione di continuità, e compone il tutto in un riposato equilibrio di proposizioni razionalizzabili, e pertanto capace e di porre fine agli interrogativi, capace di richiamare all’ordine tutte le osservazioni dissonanti, che sono da rimuovere, da esorcizzare, per alimentare l’illusione, perché si addormenti e plachi l’angoscia della morte che congela il pensiero razionale.
     Malgrado ciò, l’uomo non cessa di coltivare la speranza, non dispera ancora di scoprire, novello dottor Fregalamorte, l’élisir di lunga vita, quello che dona l’immortalità, o l’eterna giovinezza a chi ne beve un sorso; o la pietra filosofale, che elargisce ricchezze e benessere a chi la possiede. La posta in gioco è alta: garantirsi l’eternità in questa vita, non in un’altra!

                    Gino Carbonaro

2011/04/27

L'Uomo e il Tempo


La lotta contro il Tempo

    Nella vita degli uomini, il Tempo è il più temuto interlocutore, quello con cui si è costretti a fare i conti quotidianamente. Quante volte ci troviamo a dire: “Oggi ho perso un mucchio di tempo..! Ma, dove va il tempo..? Vorrei avere il tempo per leggere un libro, per portare i miei figli a passeggio..”
    Non avendo tempo, rubiamo tempo al sonno, sottraiamo tempo alle cose importanti, cerchiamo di recuperare il tempo che perdiamo ai semafori o in banca, e facciamo gli scongiuri per non incontrare per strada un automobilista che ci fa perdere tempo, perché il tempo è vita, e la nostra vita trans-corre veloce.
    Per questa inesorcizzabile mancanza di tempo, abbiamo perduto la speranza di godere l’incanto di un’alba, la bellezza di un tramonto, il piacere di stare in famiglia o con gli amici, e  quello di stare con noi stessi.
    All’interno del tempo che divide il giorno dalla notte, e i secoli in anni, mesi ed ore, del tempo che condiziona la nostra esistenza, l’espediente che mettiamo in atto è quello di correre. Di corsa ci alziamo al mattino, di corsa ci prepariamo, di corsa prendiamo un caffè. E sempre di corsa ci ritroviamo in macchina per raggiungere l’ufficio, il negozio, il posto di lavoro. Siamo padroni del globo terrestre, ma schiavi di tempo. Sentiamo che gli anni passano veloci, e spesso si bruciano come fiammiferi che tiriamo fuori da uno scatolo, fino a quando ci accorgiamo, ahimè,  che sono finiti.
     Come il cane che cerca di mordersi la coda, noi inseguiamo il tempo, senza renderci conto che il tempo non si fa acchiappare, senza capire che il tempo non si può dilatare correndo, né si può annullare fuggendo.
   Oggi, le considerazioni sul tempo sono pratiche e funzionali, ma, nei tempi antichi, il tempo “finito” era contrapposto a una eternità infinita, e massime e proverbi sul tempo erano all’insegna della filosofia e della poesia. Scriveva un antico poeta egizio: “Scorre la sabbia nella clessidra della vita. La meridiana, serva del tempo, ubbidisce al corso della luce solare; le ore avanzano inarrestabili, e con esse i giorni, i mesi, gli anni, e vola l’alata età, nel tempo che si dissolve incorporeo”. E mentre tutto sottostà alle leggi del tempo, gli uomini si sottopongono a lifting facciale, le donne cercano di arginare i segni del tempo proteggendo il viso con creme e mascara. Ma, è così che nasce l’inganno.
    In tanta amarezza, il poeta latino esortava a cogliere l’attimo fuggente, a vivere il giorno nella bellezza irripetibile di un momento gioioso.
   Nel medioevo, sulle meridiane solari era consuetudine apporre una epigrafe. Una di queste recitava: “Mentre parlo, l’ora fugge (Dum loquor, hora fugit).” E altre ancora: “Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide (vulnerant omnes, ultima necat)”. Oppure: “Io sono ombra, e ombra sei anche tu, io tengo conto del tempo, e tu?”
   
                                                   Gino Carbonaro

2011/04/26

Buddismo e concetto di "Energia" nel Giappone di oggi


Etica & Armonia 
Universale
 




Energia è concetto fisico-chimico: energia eolica, muscolare atomica. 


Per il buddismo e per i giapponesi, Energia è la grande anima dell’Universo, lo Spirito Immortale che viaggia e penetra le cose: piante, pietre, acqua, alberi, tutto vivificato da questa energia divina. Anche il canto degli uccelli, tramonto, mare in tempesta, luna, un cielo stellato e persino l’arte umana, sono frutto di questa energia.
   
Nell’incanto di un albero in fiore, in una radura di bosco, in un haiku o bonsai, il giapponese coglie la bellezza di un dio che per lui si rivela nella natura. Dove c’è energia c’è bellezza, arte, poesia, armonia. Dove questa manca, c’è il nulla o il vuoto.
    
Fine dell’uomo è quello di far sua questa energia e di non disperderla. L’equazione è chiara: energia è vita; lo spreco di energia è male, danno, morte. 

La meditazione-concentrazione di Budda immobile è mezzo per accogliere energia cosmica senza disperderla. Anche il pensiero è energia.

   Questo principio si riflette nella vita dei giapponesi. Il pesce mangiato vivo, guizzante, è energia che passa senza spreco da un organismo all’altro. Così nel sesso è necessario non sprecare il prezioso seme dell’uomo, dando con ciò lungo piacere alla coppia. 

Il dire male degli altri è dispersione di energia e perciò riprovevole. Un ritardo per chi si reca al lavoro, una metropolitana che non rispetta le tabelle di marcia, ma anche  un impiegato che non risponde al telefono, un parcheggio non fornito ai cittadini, una toilette maleodorante, una piccola disfunzione del sistema e persino un conflitto sociale sono considerati disarmonici e sprechi di energia.
    
Si tratta di principi che religione, etica e buone maniere condannano, perché rappresentano un male da cui bisogna guardarsi per evitare una dannosa entropia sociale.
  
Il Giappone che si è aperto all’occidente poco più di un secolo fa non ha conosciuto la rivoluzione francese, ma da sempre ha stabilito che rispetto della gerarchia e ordine sono il modo migliore per non sprecare energia. 

Un posto per ogni cosa,  ogni cosa al suo posto. Dunque, rispetto per tutto ciò che ci circonda, e benevolenza (che è forma di rispetto) nei confronti del prossimo. 

L’etica giapponese si sviluppa su una interfaccia speculare. Ai doveri del cittadino, corrispondono obblighi inderogabili da parte di chi gestisce la cosa pubblica o dirige una azienda. 

Un superiore può indicare la retta via al subordinato che sbaglia, ma si scuserà per averlo ripreso. Nessuno ha il diritto di rimproverare un suo simile. 

In Giappone la burocrazia non è invasiva. Il sadismo burocratico è veleno, e ogni abuso di autorità provoca imperdonabile perdita di energia per il cittadino, per l’azienda e per la società.    

Ci si chiede se, con automobili e apparecchiature digitali, non dovrebbe essere importato in occidente anche un po' del modello etico giapponese. Forse è solo questione di tempo!

                 Gino Carbonaro

2011/04/25

Anni difficili di Luigi Zampa - Modica & Vitaliano Brancati


La storia del Fascismo 
rivisitata a distanza di sessant’anni

    Restaurato dopo sessant’anni il film “Anni difficili”, prodotto dal siciliano Ferdinando Briguglio e diretto da Luigi Zampa. Le riprese furono fatte totalmente a Modica, prima città della Sicilia scelta come “location” per un film. Il soggetto era tratto da lungo racconto di Vitaliano Brancati, “Il vecchio con gli stivali”.  

      Modica. Era l’autunno del 1947, quando la bucolica quiete di una città di provincia fu sconvolta dall’arrivo di alieni. Agli occhi dei Modicani, l’evento richiamava alla memoria l’arrivo di un circo esotico con persone mai viste, che da pesanti camion con rimorchi scaricavano strani marchingegni. Si disse allora che a Modica si doveva girare un film intitolato “Il vecchio con gli stivali”.  
     La popolazione, sospettosa all’inizio, fu subito conquistata facendola parte dell’evento cinematografico. Giovani studenti, vestiti da avanguardisti, parteciparono alle riprese del film marciando fra labari e bandiere dell’Impero; uomini della strada, contadini, donne con scialle d’epoca furono coinvolti in un evento di cui nessuno conosceva contenuto e finalità, ma che era considerato interessante. Alla fine, l’entusiasmo della popolazione fu totale. La partecipazione gioiosa.
     Ma, erano tempi diversi. Tempi in cui ogni paese degli Iblei era una grande famiglia, quando i trasporti avvenivano a schiena d’asino e per mezzo di carri, e si cucinava ancora con frasche e carbone nella “tannura”. Tempi in cui la gente salutava “baciamulimanu” e il latte si vendeva per strada, munto alla bisogna, dalle mammelle di capre o mucche. Periodo sereno, insomma, quando tutti accettavano la realtà: mancanza di lavoro e fame, incertezza del futuro e arroganza del potere, convinti che il mondo era stato sempre così.
    Ferdinando Briguglio, giovane e intraprendente produttore siciliano, trovò a Modica la “location” ideale per un film che fu il primo girato negli Iblei del dopoguerra, una scenografia naturale offerta dall’ambiente, in linea con quanto richiesto dal neorealismo italiano. Tutti felici, insomma, ad eccezione della baronessa Cascino, risentita dal fatto che Massimo Girotti le aveva soffiato la cameriera offrendo a quest’ultima 10.000 lire al mese!
      Le riprese del film durarono quattro mesi, e per tutto quel tempo, città ed abitanti furono parte di un progetto di cui sfuggiva la portata. Per l’occasione, i Modicani, ebbero cose nuove da guardare e da raccontare. E si parlò di inviti a cena, del bellissimo Biagino Manenti che corteggiava le attrici del set, di corna che ornarono la testa di qualche persona, e soprattutto dell’avvenente Massimo Girotti, che restò indelebile nella memoria di molte signore.  
     Ma, gli anni dell’immediato dopoguerra rappresentavano per tutti l’alba di un nuovo giorno. Si aprivano le finestre al sole di una vita nuova. La macchina sociale messa a forzato riposo dalla guerra, ripartiva lentamente, e il film “Anni difficili”, rappresentò il segno tangibile di una economia che si rimetteva in moto.
      Poi, le riprese finirono, la troupe tirò i remi in barca, ringraziò e salutò tutti.  Dopo qualche tempo il film fu proiettato a Modica alta, al cinema Aurora. E però, durante la proiezione si registrò una atmosfera strana. Gli spettatori intuirono che il film era una cosa seria. Chi aveva vivo il ricordo della guerra sentì che la storia raccontata apriva ferite che stentavano a rimarginarsi. In alcuni passaggi il film, più che neorealista, era iperrealista. Scene di bombardamenti, per chi li aveva vissuti, evocavano indicibile angoscia. Rivedere federali e podestà fascisti in tutta la loro tracotanza richiamava alla memoria un passato storico che aveva seminato parole e raccolto guerra, promesso gloria e prodotto sofferenze e lutti.
     Il film che pure era stato girato con l’aiuto dei modicani, non rispondeva alle aspettative della gente comune. Soggettista, sceneggiatori, attori e regista erano riusciti a trasmettere i messaggi del film: caricatura di un sistema e sofferenza dei deboli, potenti che dopo la guerra cambiarono pelle, la fame di chi era costretto ad arruolarsi volontario per poter garantire a se stesso un piatto di minestra. Tutto questo faceva male. La coscienza di ognuno che tende a rimuovere i brutti ricordi era costretta a ricordare, a valutare, a tirare conclusioni da quella che era stata la storia degli italiani. Per questo, il film deluse alquanto le aspettative dei modicani, che forse credevano di andare al cinema per assistere a una romantica storia d’amore fra Massimo Girotti e la conturbante Delia Scala. Tanto avrebbe potuto dare un film americano. Invece, qui si raccontava la storia di un uomo, che per non essere licenziato dal lavoro era stato costretto a iscriversi al partito fascista, a indossare camicia nera e stivali, a partecipare alle parate militari. Ma, quando l’Italia perde la guerra, il protagonista perde il lavoro e anche il figlio ucciso dai tedeschi. Ma, dolore non meno grande per il nostro protagonista (e per gli spettatori) veniva dalla amara considerazione che, chi era stato al potere negli anni del fascismo, era rimasto al potere anche in seguito. Il film, che era una ferma denunzia al fascismo, ebbe “vita difficile”. Al suo apparire, il film fu ostacolato dalla Commissione Censura, composta tutta da funzionari fascisti di prima della guerra che Togliatti aveva confermato nella carica; fu ancora accusato di qualunquismo da alcuni giornali, ma alla Camera dei Deputati fu difeso da Andreotti, che riuscì a fare sbloccare il film consentendone l’approdo al Festival di Venezia.  
     Dopo sessant’anni, restaurato e alla sua “seconda” visione, e rivisto a distanza di tempo, il film risulta documento terribile e reale, spaccato di storia reale sotto ogni profilo: opera d’arte cinematografica, documento storico e antropologico assoluto.

                            Gino Carbonaro

2011/04/24

Diritto secondo Natura dei Siciliani

Comandamenti del Siciliano
Diritto secondo Natura


                                    di Gino Carbonaro


                                                                 
     Sulla Terra, esistono due forme di diritto: quello della natura e quello degli umani. Il primo è comune a tutti gli animali. Si trova scritto nel DNA delle specie e si compone di un solo principio: il diritto a vivere spetta a “chi-è-più”: più forte, più veloce, più viscido, più capace di mimetizzarsi, e così via. Nel diritto di natura, la morale non esiste. Ed è il diritto che troviamo applicato nella celebre favola di Fedro, Il lupo e l’agnello. Qui, la logica non c’entra, la ragione non vale. Il lupo ha fame e mangia. Il Diritto di Natura è quello che si applica nei conflitti: "Mors tua, vita mea", e si ritrova nella giungla e negli oceani, dove pesce mangia pesce.

     La prova di Dio, che si applicava nel Medioevo per stabilire chi fra due contendenti aveva ragione e chi torto, era fondata sul diritto naturale: alla prova del duello, chi vinceva aveva ragione. La ragione era del più forte: "Dio lo vult!"  

     Filosofi e fondatori di religioni, evidenziarono che il principio naturale portava danno alla collettività umana, e capovolsero la logica della sopraffazione, con un principio opposto: quello del rispetto dell’altro, e dell’uguale diritto a vivere per tutti. Nasce così la democrazia, che discende da questo nuovo principio. Fu sostenuto da allora che, se c’è una torta, questa deve essere paritariamente divisa a tutti.

    La schizofrenia sociale comincia, quando ci si accorge che ognuno di noi, non riesce a rispettare i nuovi (e innaturali) principi del diritto umano. In realtà, ciascuno di noi, senza confessarlo, continua a dare ascolto (ma, perché non dovrebbe!) all’altra voce, quella del diritto di natura che è inscritta nel nostro inconscio, e condiziona le nostre scelte. Così, ad ogni competizione o confronto, la nostra mente pensa come poter appagare il crudo e naturale desiderio di pensare a se stessi, di fare il proprio utile a spese degli altri. La forza è nella maschera, nel mimetismo; cioè, nel non farsi riconoscere dagli altri per quello che si pensa e si è..

      Il più schietto diritto del mondo è quello dei Siciliani. Coincide con il dettato della Natura.

  I Comandamenti del Siciliano:

  1. Ama a Diu, e futt’ô prossimu
  2. Nun fari beni, ca malu ti ni veni
  3. Cu ha duluri d’ê carni d’autri, i sŏ si manciunu i cani
  4. Cu’ cauria u scursuni nt’ô  pêttu, u primu muzzŭcuni è u sô
  5. Nun fari beni ê pôrci, ca  ti lu rênnĭnu a funciati
  6. Cu duna u culu all’autri, nun si pò assittari
  7. Joca cu to pa’, ma prima arrĭmìnicci i carti
  8. Sparti tu, ca cu sparti havi a mêgghiu parti
  9. Difênni u tô, o tôrtu o rittu
  10. Ôcchiu vivu e a manu ô cutêddu
  11. Cu futti futti, Diu pirduna a tutti
  12. Cu havi dinari e amicizia, si teni ntra lu culu la giustizia!
  13. U cumannari è mêgghiu d’ô fúttiri
  14. A cu ti leva u pani, lévicci a vita!

            Gino Carbonaro

Dhjeri di Cava Grande del Cassibile e Laghetti di Avola

Una escursione con il CAI: pagina di diario

      Oggi, domenica 21 aprile 2002 andiamo a Cava Grande (Laghetti di Avola) con un gruppo di soci del Club Alpino Italiano di Ragusa
     La partenza, come al solito, è fissata per le 8,30. La strada per raggiungere Cava Grande è quella interna: Giarratana per Palazzolo Acreide e la superstrada “Mare-Monti”. poi, sempre diritto, sino a quando, quest'ultima si restringe e diventa strada provinciale. Ancora dodici chilometri e la strada, molto bella per il suo percorso articolato e sereno, si bisforca: diritto verso Noto (e Noto Antica); a sinistra verso Avola Antica e Cava Grande. Altri dieci chilometri di strada stretta, asfaltata e serpeggiante, e si arriva nello slargo dove parcheggiamo le macchine.
     La giornata è primaverile, bella con un delicato tepore; solo un po' di nebbiolina vela la luce del Sole e attenua il calore. Scesi dalle macchine e sistemati gli zaini alle spalle, viene spontaneo avvicinarsi alla ringhiera di legno per dare uno sguardo allo strapiombo che si apre maestoso sotto i nostri occhi. Visti dall’alto, i laghetti sono sempre bellissimi, anche se il velo di foschia appanna il colore verde-smeraldo che nelle belle giornate colora le acque dei laghetti. Il sentiero che va giù al fondo della valle è stato aggiustato e arricchito da ringhiere di legno. Dall'altra parte della valle, misteriosa, la Grotta dei Briganti sembra sfidare il tempo.     
     Ora, attorno a una macchina,  si è creato un capannello di escursionisti, ci avviciniamo e scorgiamo due persone che spiegano delle mappe sul cofano di un’auto; sono le guide venute da Avola e contattate da Claudio Occhipinti, il coordinatore della gita. Le guide delucidano il percorso e danno cenni di storia del luogo. Sono entrambi vestiti per acquisire le phisique du rôle: cappello alpino e tuta mimetica, scarpe da montagna e corde e moschettoni da scalata alpina.  
     Sapremo che entrambi si chiamano Saro, ma uno è diminutivo di Rosario, l'altro da Baldassarre ed entrambi fanno parte della associazione ambientalista di Avola. Rosario è botanico-erborista, e accerteremo in seguito che si tratta di un superconoscitore di flora della macchia mediterranea, una sorta di enciclopedia viaggiante da consultare quando vuoi conoscere il nome di una pianta o di un’erba, e la risposta è sempre puntuale, chiara, scientifica.
     Baldassarre l’ambientalista, non è molto alto.  Ha barba grigia,  un sorriso dolce e benevolo, e lo diresti un naturalista uscito da un libro di favole per bambini.   Sembra solo mancargli la rete in mano per acchiappare farfalle. Di lui, accerteremo la sicura conoscenza del territorio, e sarà per merito suo se faremo una delle più belle escursioni dell'anno, un viaggio nella natura e nella storia del nostro passato: sarà lui a parlarci di Paolo Orsi, dell’archeologo Messina e di altri che si sono interessati ai Dhjeri di Cava Grande; ancora lui, ci indica percorsi invisibili e ci fa inerpicare per scoscese, anfratti e tunnel scavati nella roccia e sentieri a strapiombo sul letto del fiume Cassibile,
     Sulle mappe spiegate, Baldassarre racconta che a Cava Grande si è sviluppata una delle più antiche civiltà rupestri degli Iblei, e mentre fa scorrere il dito sulle carte topografiche, ci spiega che Dhjeri è termine dall’etimo sconosciuto che potrebbe derivare dall'arabo "dhjara", casa, abitazione.
     Quello che visiteremo non è un insieme di grotte isolate le une dalle altre, così come si vede a Cava d’Ispica, ma un vero e proprio villaggio strutturato, interamente  ricavato all'interno della montagna cavata, con grotte quasi sempre intercomunicanti fra di loro, collegate con corridoi, scale e canali sempre ricavati nella roccia, che mettono in comunicazione le varie parti della scarpata.
     I Dhjeri sono un reperto archeologico che noi impariamo a conoscere dal vivo, non mediato da libri, riviste, fotografie o riprese televisive: il viaggio è un bagno nel passato, una immersione in un mondo che non c’è più. 
     Dopo queste anticipazioni e alcuni avvertimenti sulle difficoltà del tragitto, ci muoviamo in fila indiana seguendo il percorso scosceso che porta giù al fondo valle, là dove il Cassibile forma incantevoli laghetti. 
     Il sentiero che percorriamo per raggiungere i Dhjeri è per la prima parte lo stesso che porta ai laghetti, ma a metà percorso seguiamo a sinistra un viottolo di mezza costa che procede verso nord  seguendo l'anatomia della costa.
     Tutto intorno è una esplosione di verde; gli occhi introiettano le immagini di una natura incontaminata; l'ossigeno riempie i polmoni e ricrea l'animo; in quella immersione nella natura viviamo una esperienza unica. Il rapporto con l'ambiente è sacrale, l’atmosfera magica; in alto, lontane, volteggiano due poiane, su un ramo d’albero si posa d’improvviso una cinciarella che subito guizza via impaurita,  in basso  nella valle  si aprono allo sguardo  laghetti e marmitte dall’intenso colore verde-smeraldo e cascatelle di acqua che si lasciano inghiottire dal verde lussureggiante della vallata. Nella costa di fronte altre grotte poste in posizioni irraggiungibili a strapiombo sulla valle perforano la roccia calcarea.
     Ora la mente è occupata da domande alle quali non si riesce a dare risposta. Ci chiediamo perché  questi uomini arcaici e primitivi, nostri lontani progenitori, hanno scelto di vivere in luoghi tanto impervi? Ci chiediamo a quanto risale questa civiltà delle rupi? Dieci o dodicimila anni come si dice o centomila anni, come tutto sembra far pensare. E perché nessuno si attiva per salvaguardare e valorizzare questo tesoro di cultura preistorica proteggendolo dall’incuria del tempo e facendolo conoscere al mondo?
     Queste sono le considerazioni che attraversano la mente, mentre si procede nel sentiero di mezza costa fra querce e pistacchi, impreziositi da cisti in fiore, e smílace, asparagi e rovi, acanti, salvioni ed euforbie, trifoglio bituminoso, ampelodesmi e stupende eriche in fiore che vengono fuori da umide spaccature della roccia, mentre in basso, giù nel fondovalle, vedi oleandri, che qui sono autoctoni e mostrano i primi boccioli in fiore ingentilendo il paesaggio.
     Improvvisamente la sorpresa: l’avanguardia composta dalle due guide di Avola, da Sergio Trovato, Giovanni Scribano e Claudio Occhipinti hanno fissato a un albero in alto ad una scoscesa delle corde e ci invitano a salire aggrappandoci ad esse; qui non esiste un sentiero, e per questo seguiremo le indicazioni delle nostre guide che indicano di fermarci all’ingresso di una grotta all’interno della quale si apre il primo tunnel, dove è possibile vedere gradini logorati dall’uso e dal tempo.
     Saliamo entro un tunnel con l’ausilio di lampade e sbuchiamo su uno strapiombo. Ancora una disposizione di corde e una risalita che disciplinatamente viene fatta fare a tutti gli escursionisti; alcuni, più agili salgono attaccati ad una sola corda, altri vengono imbracati, cioè attaccati alla vita con una terza corda che li trattiene in caso dovessero scivolare.
     L’escursione è bellissima, l’esperienza indimenticabile, l’arric-chimento culturale è indicibile.
     Si arriva, infine, là dove l’incredibile deve essere credibile. Per qualche motivo abbiamo la certa impressione di essere tornati indietro con la macchina del tempo: lì, in quelle grotte cavate con chissà quanti sforzi e in chissà quali tempi, pullulava la vita di una delle più antiche civiltà delle rupi d’Europa, forse più antica della civiltà castellucciana. Tanto si evince dal fatto che il villaggio castellucciano, come un castello medievale, è costruito sul cocuzzolo di una montagna, in posizione strategica e difendibile e difeso da mura di cinta. I Dhjeri di Cava Grande sono realizzati come un formicaio ricavato nella roccia.
     Ora ci fermiamo per consumare la nostra colazione a sacco, cerchiamo un angolo dove potersi distendere, conversazione distesa fra amici e colleghi, complimenti agli organizzatori, commenti su quanto si è visto, quindi la visita accurata alle grotte, alcune delle quali lasciano tracce di culture che andrebbero conosciute meglio.
     Si torna a casa nel pomeriggio inoltrato facendo una fermata “culturale” al bar per consumare un dolcino, un gelato, un caffè.
                                      Gino Carbonaro



Castello di Donnafugata - Ragusa


Gioielli di Sicilia

Un’opera d’arte firmata: barone Corrado Arezzo de Spuches

1.  il nome e la fondazione del Castello

            Il nome Donnafugata (in sicil. Ronnafuata) viene fatto derivare dall’arabo ’ayn-as-jafât’, [1] che dovrebbe significare “Fonte della salute”;  resta, comunque, poco chiaro come nel corso dei secoli la parola araba, fatta propria dai siciliani, abbia potuto nel corso dei secoli essere modificata in questo modo.
            I più, fanno risalire le origini del Castello di Donnafugata all’anno Mille, al tempo della dominazione araba in Sicilia, [2]  e qualcuno ritiene siano stati proprio gli Arabi a costruire le torri di avvistamento con annessa guarnigione militare fortificata per controllare il mare.
             E’ più probabile, invece, che siano stati i Normanni a costruire la vedetta turrita, che prese il nome dalla sorgente che  era stata battezzata dagli Arabi. [3]
 Ed è forse più attendibile, che siano stati i nuovi dominatori a costruire una guarnigione per il controllo della parte sud-orientale della Sicilia, dalla quale, per secoli ancora i Normanni [4]  temettero possibili sbarchi ad opera dei temibili Saraceni. [5]   In questo caso la fondazione del fortino dovrebbe essere spostata al XIII sec.


 2. Primo ampliamento del Castello

            Verso i primi del XIV sec. il Conte Manfredi Chiaramonte fa costruire accanto al primitivo Castrum una più ampia struttura abitativa, sempre difesa da alte mura, come era nella logica del tempo. [6]
 Lentamente, la costruzione cambiò la connotazione: da struttura militare divenne residenza padronale per la gestione del patrimonio agricolo (frumento, carrube, olive, e così via). Di fatto siamo all’idea della villa gentilizia, che è posta al centro del feudo, dalla quale i proprietari sovrintendono e controllano il feudo e l’annessa masseria.

3.   Il Castello di Donnafugata viene acquisito dalla famiglia Arezzo

        Verso la metà del XVII sec., il feudo di Donnafugata, [7] con l’annesso casato passa dal barone[8] Gugliemo Bellìo Caprera a Vincenzo Arezzo la Rocca barone di Serri, che nel 1648 ottiene l’ulteriore investitura di Barone [9] di Donnafugata.     
         Ma è solo nella seconda metà dell’Ottocento che il Castello acquisisce la forma e le dimensioni attuali.
 Fu dopo la realizzazione dell’Unità d’Italia che il barone  Corrado Arezzo de Spuches, erede di una delle più nobili e ricche famiglie iblee, marito di donna Concetta Arezzo di Trifiletti, dà inizio all’ampliamento del Castello di Donnafugata, che realizza attorno all’antico nucleo abitativo e a due torri saracene rimaste.
 L’impegno economico è notevole, lo scopo è autocelebratico o se vogliamo di status; il modello nella mente dell’ideatore dovrà ricordare lo sfarzo della reggia di Versailles. Di fatto il Castello di Donnafugata, che si sviluppa su una superficie di 3348 mq, e conta ben 122 vani utili, ha tutte le caratteristiche di una piccola reggia: 80.000 mq di parco ricco di piante esotiche, vasche, giochi d’acqua, scherzi, giardini alla francese e persino un labirinto; copie di statue del Canova (Fauno e Psiche) nella superba e luminosa scalinata di ingresso; salone immenso dove sono affrescati gli stemmi dei casati e delle città più importanti della Sicilia, a ricordo di quanto è possibile trovare al castello di Windsor; salone degli specchi, copia ridotta di quanto era stato ideato nel XVII sec. dai famosi architetti di Versailles; sala della musica, salone per i fumatori con annessa sala da biliardo, salone delle donne, camera da letto del vescovo (per quando veniva ospitato); e ancora, una fornitissima biblioteca ricca di libri rari, preziosi e tutti rilegati; una pinacoteca ricca di opera bellissime, che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello per un nobile uomo di cultura; e persino un museo di reperti archeologici con vasi e ceramiche greche provenienti dalla vicina Camarina.
 Tutte le pareti sono ricoperte con carte da parati damascate e tessuti di seta, con affreschi e trompe-l’oeil, ancora arricchite da quadri di pittori famosi, soprattutto ritratti di ottima fattura; e ancora tendaggi alle porte e alle finestre, lampadari con vetri di Murano, specchi, stucchi e decorazioni, e sui mobili e ovunque sono messi in bella mostra decine di orologi d’arte, opera di famosi orologiai svizzeri.
Nel Castello, che va considerato un’opera d’arte, senti ovunque la mano del barone Corrado Arezzo (à vedi scheda), ideatore e coordinatore del tutto; un uomo dalla personalità   eclettica ed eccezionale, se si pensa al livello culturale della nobiltà di quell’epoca.
 Sicuramente intelligentissimo ed eccezionale questo uomo ricchissimo, dotato di ampia cultura, [10] nella accezione propria del termine; finissimo intenditore di arte, amante della musica, della pittura, della poesia, del teatro, dotato di un gusto sicuro e interessato a problemi economici e politica.
         Di fatto, il Castello di Donnafugata è il ritratto della sua filosofia della vita e della sua personalità. La collettività iblea non avrebbe ereditato questo gioiello senza l’intervento del   barone Corrado Arezzo de Spuches.
 Sul Castello di Donnafugata, forse giustamente criticato per il suo disarmonico eclettismo, pesa non poco l’intervento voluto dall’erede francese Gaetano Combes, barone di Léstrade, che verso i primi del ’900 fece aggiungere alla facciata preesistente un loggione-galleria di stile neo-gotico, veneziano, si è detto, ma sostanzialmente liberty[11] veneziano e neo-gotico, che, anche se bello, si salda malamente con la precedente austera struttura del Castello e stride non poco con il landscape e le costruzioni circostanti.

                                                        Gino Carbonaro
                                                           9 gennaio 2003         
                                                            
[1]  L’attribuzione è di Raffaele Solarino che la riporta ne La Contea di Modica;  la Fonte della salute esiste tuttora a Donnafugata e pare alimenti un pozzo.
[2]  L’invasione araba va dall’anno 827 (inizio della conquista) all’anno 1098. L’ultima battaglia fu quella combattuta nella piana di Donnalucata. In quella occasione in aiuto dei Cristiani scese dal cielo la Madonna, bianca su un cavallo bianco, che combattè a fianco dei Normanni per sconfiggere gli infedeli.
[3]  Tanto si ritiene di poter affermare in quanto, prima della invasione della Sicilia, gli Arabi detenevano il controllo del Mediterraneo, e non lo perdettero neppure dopo la cacciata avvenuta alla fine dell’XI sec. ad opera dei Normanni.
[4]  La regione degli Iblei fu l’ultima ad essere espugnata dai Normanni dopo una guerra durata trent’anni. Per questo fu eletta a Contea. IL privilegio era dettato dalla sua importanza militare.
[5]  I Turchi perdettero il controllo del Mediterraneo dopo la battaglia navale di Lepanto (1571).
[6]  Fonte non confermata.
[7]   Il feudo è eletto a baronìa al tempo della dominazione spagnola.
[8]  Barone: è uno dei titoli più diffusi e certamente il più basso dell’ordinamento feudale. Il nome, di origine spagnola, vuol dire “Uomo (libero)”, “Signore” e indicò il Feudatario che veniva investito direttamente dal sovrano. In Sicilia era il titolo nobiliare più comune dopo quello di cavaliere. Nei tempi passati si acquisiva dietro pagamento di una somma fissata dal re e pagata dal futuro titolato. Il re bandiva periodicamente la concessione di titoli nobiliari allorquando aveva bisogno di soldi (sistema indiretto di tassazione una tantum):  per rinnovare la flotta, per rinsanguare la dote di una figlia da sposare, o quando le casse erano vuote. Barone, dunque, è l’uomo potente, che spesso si fa arrogante e pre-potente; per questo il termine barone acquisì nel corso dei secoli una accezione negativa: nel senso di individuo che conosce solo la sua legge, quella del più forte. Baro, detto di chi truffa al gioco, deriva da barone.
[10]   Cultura è la capacità produttiva della mente.
[11]  Lo stile Liberty prese il nome da Arthur Liberty, un architetto-disegnatore inglese, che verso la fine dell’Ottocento inventò un nuovo stile artistico che si ispirava ad un totale eclettismo, mescolando lentamente, arte egizia, greca classica, romanica, gotica, veneziana e floreale con rigidi principi geometrici e libertà di inventiva.