2011/06/30

Il dottor Fregalamorte e l'élisir di lunga vita


Successo della ragione e antinomia vita-morte

     È dilemma tragico quello che si trova a vivere l’uomo del xx sec. Percepisce ragione e scienza come strumenti di potere, e si illude perciò di essere riuscito ad avere il dominio della natura, e forse anche dell’universo, in un futuro non lontano.
     Comprende, l’uomo, di essere una macchina ricca di potenzialità non ancora conosciute; mentre, allo stesso tempo, l’uomo prende atto che esiste un limite invalicabile, rappresentato dalla estrema precarietà del suo “hardware”, dalla struttura biochimica che lo costituisce, materia vivente che dovrà inevitabilmente dissolversi nel nulla.
    Il paradosso umano sta proprio nel vivere la vertigine di potere derivata dalla constatazione “obiettiva” dovuta alle scoperte forti della scienza, e parallelamente dall’essere costretto a percepirsi fuscello in balia del Destino o della Natura, che hanno deciso per lui tante cose, soprattutto quella del suo esser nato e del suo dover morire.
     L’esistente-uomo vive in sé la coscienza di questa contraddizione: coscienza di dover fare un salto nel nulla, un passaggio dall’essere al non-essere, dalla consapevolezza di esistere, all’idea che dovrà comunque e in ogni caso dissolversi nel nulla.
     Ed è proprio questa doppia informazione inviata al cervello (positivo = vivere + negativo = dover-morire) questo rapporto infame, inaccettabile, incomprensibile  (ingiusto?) fra chi (ma, Chi?) ha deciso per lui il prima e il dopo delle cose, i rapporti e le leggi della natura, e noi, esseri viventi e devianti che ci portiamo appresso la centralina della rassicurante presunzione di possedere una forza, un potere (potere di che?) nella logica consonante della ragione.
     Diversità di potenziale fra due sfere opposte e contrastanti (mondo fisico/razionale e mondo che sfugge al controllo della ragione) che fa andare in tilt il cervello, che non può, non riesce a contenere il sovraccarico della lacerante contraddizione (dell’essere e del non-dover-essere) che a livello logico si annullano e si azzerano.
     Una trappola mortale (mai l’aggettivo è stato più appropriato!) che però finisce di essere tale se si assume per buona l’ipotesi elevata a postulato dalle religioni, che la vita continuerà anche dopo la morte.
    Pia illusione che scioglie la contraddizione implicita nell’antinomia vita-morte, facendola rientrare nell’alveo di una logica coerente (?) e rassicurante che non conosce soluzione di continuità, e compone il tutto in un riposato equilibrio di proposizioni razionalizzabili, e pertanto capace e di porre fine agli interrogativi, capace di richiamare all’ordine tutte le osservazioni dissonanti, che sono da rimuovere, da esorcizzare, per alimentare l’illusione, perché si addormenti e plachi l’angoscia della morte che congela il pensiero razionale.
     Malgrado ciò, l’uomo non cessa di coltivare la speranza, non dispera ancora di scoprire, novello dottor Fregalamorte, l’élisir di lunga vita, quello che dona l’immortalità, o l’eterna giovinezza a chi ne beve un sorso; o la pietra filosofale, che elargisce ricchezze e benessere a chi la possiede. La posta in gioco è alta: garantirsi l’eternità in questa vita, non in un’altra!

                                                                              Gino Carbonaro

2011/06/28

Franco A. Belgiorno, I guardiani di nuvole

Fra microstoria e poesia.


       Sosteneva uno scrittore del passato che il primo giudizio critico è quello del tipografo, perché è lì fra linotype e tavolo di composizione, che viene fatta in silenzio la prima diagnosi di un autore e di un’opera. È il tipografo – continuava lo scrit­tore – che valuta “a naso” l’opera e ne misu­ra la validità, con un giudizio professionale e disinteressato.
     Ho ripensato a questo autore, quando ho saputo che Roberto Cannata, Calogero Lo Bello e Pietro Ottimo, titolari de “La Grafi­ca”, la nota tipografia modicana, qualche anno fa hanno voluto fare un omaggio all’amico scrittore Franco Antonio Belgior­no, pubblicando in edizione fuori commer­
cio I guardiani di nuvole, un libretto di una quarantina di pagine, contenente tren­tadue ricordi di personaggi modicani, ora scomparsi, che appartengono alla giovinez­za dello scrittore, e sarebbero stati dimenti­cati, se Belgiorno non li avesse fissati nel ricordo di pagine di splendida poesia.
     Sotto il profilo letterario, "I guardiani di nuvo­le! sono schede commemorative, che lo scrittore dedica alla memoria di personaggi umili, per l’importanza che gli stessi rivesto­no nella memoria dell’autore e per l’immaginario collettivo dei modicani, ai quali questi personaggi appartengono.
   Idealmente, "I guardiani di nuvole! richia­mano alla memoria le epigrafi della Antolo­gia Palatina, la storica silloge di epigrammi greco-­alessandrini, che fissano in estrema sintesi e bellezza il ricordo di persone segnate dalla sorte e dalla morte; e fanno pensare ancora alla Antologia di Spoon River (che alla Antologia Palatina si ispira, oltre che per il contenuto dell’opera, anche per il titolo).
     "I guardiani di nuvole", come i personaggi di Edgar Lee Master, sono vissuti ai confini della società, in una sorta di limbo sociale, senza far male a nessuno, semmai riceven­done, e cercando di essere accettati dagli altri.
   "I guardiani di nuvole" sono i paria della società, gli emarginati, come Neli Scaccia e Vanni u piecuru, gli alienati come U Cavaleri Poidomani, figure semplici e sorridenti, come «Angiledda, profumata e bella come i fiori di capperi, che andava raccogliendo lungo le lenze di Cartellone»; creature che sembrano appartenere a un mondo altro, dimenticate da Dio e dagli uomini.
      Sono questi i personaggi ai quali Belgiorno rivolge la sua attenzione, quelli che invita al suo cenacolo letterario, per gustare ancora il sapore delle cose autentiche, perché solo dove c’è povertà c’è semplicità e non trovi la alienazione che provoca la ricchezza e il benessere.
     Così, rivedi Vannìnu re sponzi scendere nei pome­riggi estivi con una cesta piena di mazzetti di gelso­mino, che avrebbe vendu­to ai signori seduti al Cir­colo Unione o al Caffè Orientale: questo è il lavo­ro che si era inventato Vanninu per racimolare qual­che lira, per sentirsi parte dell’insieme, e dare un valore alla sua giornata, un significato alla sua vita. «Ora – scrive Belgiorno – è anche lui uno stelo di fiore, una memoria del tempo perduto, un vascel­lo che scivola nel mare del nulla, e si lascia dietro la scia ineguagliabile del suo carico profumato».
     Immagini che si dissolvono, parole che suo­nano musica consegnata al vento, che si fa carico di trasportarla sulle nuvole, dove Van­ninu raccoglie ancora gelsomini per profu­mare gli altari del Paradiso «col suo odoroso groviglio di bianco».
     Ne "I Guardiani di nuvole", vengono rievo­cate queste presenze-­assenze, figure alle quali Belgiorno restituisce una dignità che percepisci superumana; personaggi unti dal Signore, ma segnati dalla sorte, che come fiori di campo hanno lasciato una debole, ma dolce e intensa traccia del loro passaggio su questa terra.
     Così, Luiggìnu l’uoviru (il cieco) che batte il tamburo facendosi guidare per mano da un bambi­no, fa il banditore per guadagnarsi la vita: «Ora imbonisce in Paradiso e dà la sveglia alle nuvole, chiama a raccolta i paesi aerei, quando è ora di ornarli con le trine degli arco­baleni, e in quei borghi assolati, in quei vil­laggi dove i ciechi sono tutti vedenti, non ha bisogno di chi lo conduca per mano. Sta bat­tendo che tutto va bene, ta­pum, che la città è felice, ta­pum; che la gente ha finalmente scoperto la giustizia e l’amore, ta­pum. Sta sognando nella sua pacifica morte». Ed è poesia eletta, e della più fine, quella che abbiamo appena riportato.
     E Pietru c’ô frischiettu, che per poche lire, suonava ad orecchio, con meraviglia di tutti, qualsiasi motivo, «fosse il Concerto n° 3 per violino di Mozart o la Quinta di Beethoven, non avrebbe sbagliato una nota».
     E il signor Di Rosa, che «per un modesto obolo offriva schedine della Sisal» che pre­parava di notte «in una foresta di uno, ics, due... perduto nell’ossessione di far ricchi i suoi simili». Lo vedevi apparire da lontano, alto, allampanato, «gongolante e pacifico», sventolando le schedine, passando da un marciapiede all’altro alla ricerca di clienti, e quando ti arrivava vicino gli sentivi sussurra­re sottovoce: «Milioni, milioni!». Poi, d’un trat­to non si vide più: si disse che era morto. 
     Di questi personaggi, l’autore non dimentica nessuno, e ricorda Matteu, che tutte le mattine raccoglieva i «sacchetti con i fondi del caffè per le brodaglie che davano all’ospizio». Figure di un mondo dove tutti avevano un ruolo preciso e cercavano di inventarsi un mestiere per vivere.
     Ora, sono tutti dissolti nella nebbia, dileguati come ombre, «perché anche di ombre è fatta la vita, e di titoli e blasoni non è mai risorto un ricordo che si accompagnasse alla purezza e alla innocenza della povertà». Figure immense, simboli, che diventano eterni, ora che l’autore li ha trasportati nell’iperuranio della sua fantasia, nell’Eden dei ricordi. Ed è mestizia dell’anima, ed è dolore, quello che trasmette questa poesia, dal tono flebile, che canta sottovoce le cose che vanno
via, «perché la vita macina la memoria e la porta al macero della gloria».
     Sembra un bouquet, questo libretto, o anche un concerto di musiche giocate sui toni minori del blues, che cantano elegiaca­mente la vita.
     E c’è ancora Zuddu, che se n’è andato per sempre dai Ponti di Pulera, «... e ora sta sedu­to in un cupo silenzio sulla soglia del suo tugurio, nel fresco della sera che profuma di garofani e menta, in mezzo al volo basso di miriadi di rondini, dimenticato da Dio, come un pacchetto d’uomo che nessuno viene a ritirare». E siamo al tema centrale della medi­tazione poetica di Belgiorno: al senso della “dipartita” e della “assenza”, della esisten­ziale separazione della parte dal tutto, della spartenza e della solitudine, da lui sentita come massimo dei mali, forma di lacerazio­ne dell’io, che lo scrittore vive come evento fatale e tragico della vita; e sono temi cen­trali della tradizione poetica siciliana.
     Solitudine, spartenza, dimenticanza sono il leitmotiv che accompagna la produzione poetica di Belgiorno; temi che, a volte, si rifu­giano nello sfondo e sembrano attenuarsi, ma che ricompaiono all’improvviso per mate­rializzarsi nel grido della “di­speranza”, o della speranza perduta, che nutre l’angoscia dell’esistere; elementi che assu­mono una valenza tragica. Ed è la prova che tutti sono andati via, tutti sono scomparsi e ci hanno lasciati, qui nel deserto della solitu­dine! Così, Angiledda, che «si perse dentro a un tramonto e portò via la nostra infanzia»; Donna Cuncittina, che «si spense nel sonno, e forse sognò i gradini del cielo mentre li sali­va uno per uno»; ed è andata via anche Rosetta Di Rosa, la dolcissima, che scomparve in un giorno, con la famiglia, cacciata via dalla miseria.
     Spartenza, solitudine, dimenticanza sono temi classici, ontologici dell’esistenzialismo poetico di Franco Antonio Belgiorno, che si prefigge ora un’impresa impossibile, quella di trattenere al di qua del «limitare di Dite» e della dimenticanza, che è forma di morte, quei personaggi che hanno nutrito la sua giovinezza, «perché la vita non può arrendersi alla falce della morte». Ed è questo che fa la misura e la grandezza della poesia di Bel­giorno.
     E siamo al “Tempo”, altra categoria dell’esistere, che è il vero protagonista dell’opera di Belgiorno. Il Tempo che è signore e padrone delle cose, il Saturno Kronos, che divora le sue creature; il Tempo che dà e ruba gli affetti, le albe, i tramonti, le bellezze, la vita, «il tempo che ci fa orfani di affetti, ... il tempo che incendia il passato ... anche le briciole di vita, che si racimolano alla luce del sole di casa»: il tempo che bloc­ca ogni cosa, ed è per questo, che ... «l’angolo del vicolo dove scompare don Tanuzzu è ancora senza lampadina».
     Tempo crudele, che paradossalmente ama le sue creature e «incorona i fichidindia di giallo e di rosso, e tinge gli ulivi d’argento, come se la polvere... del tempo... fosse caduta sulle loro foglie».
     Ma sulla solitudine degli esistenti e come forma di reazione all’oblio, si erge il canto del poeta, mentre la voce della poesia si fa memoria: custode dei ricordi e del tempo perduto. È così che l’amarezza del pessimi­smo si stempera e si addolcisce nel farsi poesia, e il poeta, che è lirico, si fa poeta epi­co, in quanto interprete dei sentimenti di tut­ti. Ultimo degli aedi di greca memoria, Fran­co Antonio Belgiorno, dall’alto della sua splendida casa di Cartellone, canta sulla cetra dei ricordi, l’immagine di Modica, ora pietrificata nell’afa estiva, ora addormentata avendo preso per cuscino una collina, ora «come ombra che salda i frammenti della sua sostanza sulle pietre e sul cielo», e materna ne custodisce anch’essa le memo­rie della vita. Ed è poeta vero, Belgiorno, che usa le parole come fossero note, con le quali evoca musica, echi, suggestioni, e quindi consonanze di amore per questi fra­telli minori della grande e incomprensibile storia degli umani. E sono belle le cose che scrive, i personaggi che descrive, le suggestioni che trasmette, che emanano un’energia e una verità che è vita, soffio vita­le, che è spirito, onda che ti porta e ti traspor­ta: ed è microstoria che ti fa pensare, ma soprattutto poesia che ti fa sognare e ti fa interrogare sul mistero della vita, sulla bel­lezza delle piccole­grandi cose che muoio­no e vengono salvate dal ricordo. Ed è bello quando la scrittura trasforma in simboli, i per­sonaggi di tutti i giorni, poggiando il discorso anche sulla filosofia dell’esistere, che il let­tore non manca di cogliere fra le righe di que­ste pagine stupende.

                                                Gino Carbonaro

In “Pagine dal Sud”, aprile 2008.

2011/06/22

Pensieri, Considerazioni, Ri-flessioni 3.Verità e dubbio?

Capisci di non poter capire

La tua ragione ha torto!
E tu hai torto a non darmi ragione.
Ascolta.
L'unica certezza è che non ci sono certezze.
L'unica verità è
che ci sono infinite verità.
Adesso puoi dire che sai di sapere.
Capisci di non poter capire.

Gino Carbonaro

2011/06/20

Giufà Baccalà

Salve Amici,
      Mi chiamo Giufà Baccalà.
      Sono un onorato cittadino dell´ISR (Ital-System-Republic) di origine siciliana.  
       Sono nato a Vattelapesca in provincia di Kilosà, ma… vivo a “Milano Due” in un palazzo costruito dalle imprese edili del nostro amato Presidente del Consiglio. Lavoro in una azienda di cui è azionista il Presidente del Consiglio. L’Assicurazione  della mia auto è del Presidente del Consigliocome del Presidente del Consiglio è l´Assicurazione che gestisce la  mia Previdenza Integrativa.
Il cellulare che uso fa parte di una holding gestita da capitali del nostro Presidente del Consiglio.
      Tutte le mattine acquisto il Giornale, di cui è proprietario il
nostro  Presidente  del Consiglio e il venerdì prendo il settimanale di cui è sempre proprietario il nostro Presidente del  Consiglio. La mia Banca appartiene al Presidente del Consiglio, mentre per gli investimenti in borsa mi servo del Gruppo Bancario 2M (Mediobanca-Mediolanum) che da Lussemburgo investe il mio capitale nel mondo e mi protegge. Perlomeno, così io credo. All’uscita dal lavoro, vado a far spesa negli Ipermercati del Presidente del Consiglio, e compro prodotti di aziende partecipate dal Presidente del Consiglio   
La sera, se decido di vedere un film, scelgo una sala cinematografica del circuito di proprietà del Presidente del Consiglio, e guardo film prodotti e distribuiti sempre da società del Presidente del Consiglio, tra parentesi e per inciso, si tratta di film che godono di finanziamenti pubblici previsti dal Governo presieduto dal Presidente del Consiglio. La sera, poi, se rimango a casa, e mi piace guardare le TV private del Presidente del Consiglio uso il decoder che mi ha venduto la società che appartiene al Presidente del Consiglio. E qui, nella TV, vengono trasmessi film realizzati da Società che appartengono al nostro Presidente del Consiglio. Qui, i Film vengono spesso interrotti da spot realizzati da Agenzie Pubblicitarie del Presidente del Consiglio. Ma, a me piace guardare i risultati delle partite, perché io, cittadino italiano, io, Giufà Baccalà, tifo per la squadra del mio Presidente del Consiglio. Quando non guardo le TV del Presidente del Consiglio, guardo le televisioni di Stato, i cui direttori sono nominati da parlamentari scelti dal Presidente del Consiglio.  Se mi annoio, navigo in internet, con provider controllati dal mio Presidente del Consiglio. Se non ho voglia di TV o non mi piace navigare in internet, leggo
solo i libri, di una delle numerose case editrici di proprietà del Presidente del Consiglio.
      Naturalmente, come in tutti i paesi democratici e liberali, anche in questa Italia è il Presidente del Consiglio che predispone le leggi che vengono approvate da un Parlamento, dove i deputati della maggioranza amano come me il Presidente del Consiglio.
  Si tratta di dipendenti ed avvocati del Presidente del Consiglio, parlamentari che governano liberamente per l’interesse del popolo italiano e per il bene della loro collettività, dunque per il mio e per il nostro esclusivo interesse!
  Conflitti di interesse? ma dove? ma quando? Collusioni con la mafia? Ma chi lo dice? La mafia? non esiste! La mafia è una invenzione! "La più grande invenzione dopo la penicillina e il treno a vapore!"
  Per questo è una fortuna vivere in Italia, il paese più democratico e più libero del mondo. E lo dico con orgoglio, ed è vera cornucopia per noi continuare a avere al governo un uomo che tutto il mondo ci invidia.
                               Long life to the King!
          
                 W  IL PARTITO DELLE LIBERTA’!
                  (libertà di fare quello che ognuno vuole)
                           W  LA CASA DELLE LIBERTA’!
                                        "Forse Italia!"
Votiamo per il
            Parlamento degli Ingiusti... Imputati
Con lealtà e simpatia mi firmo  
                                        Giufà (il) Baccalà  
                                                  Cittadino di un mondo giusto



P.S.  Dimenticavo, ho deciso di andare in vacanza! Ho prenotato un biglietto aereo in una società che "dicono" non appartiene al Presidente del Consiglio. Ma io non ci credo. In ogni caso e comunque io andrò a fare le mie vacanze in un villaggio turistico che è di proprietà della famiglia del Presidente del Consiglio.
W il Premier, W il Primo dei Primi, in tutto! Il primo sempre a cavallo. Dai tempi di Creso ... Nessuno ha più visto simile miracolo della natura.
                    W LA BANDA DEGLI ONESTI!

P.S. Le considerazioni sopra riportate sono di Gino Carbonaro

2011/06/17

Il fico & la donna, storia etimologico-linguistica

Il fico e la donna. Analogie sessuali

   Il fico e il suo frutto sono stati da sempre associati alla donna. Nell’antichità romana l’albero sacro alle donne era il caprifico (fico delle capre o fico selvatico, ’u ficaşŧŕu). Dea protettrice era Giunone Caprotina, che a Roma veniva festeggiata alle “none” di luglio,[1] giorno in cui le donne si recavano fuori delle mura, e presso un vecchio caprifico sacrificavano alla loro dea.
   Per i Greci, la parola fico (σύκον) indica sia il frutto della pianta che l’organo sessuale femminile.[2]
φ

   È curioso il fatto che la φ (fi, phi o effe, ventunesima lettera dell’alfabeto greco) è simbolo grafico che richiama alla mente il sesso femminile (fica), mentre ricorda il frutto del fico. La fessurina del fico maturo stillante miele e il rigonfiamento del sesso femminile stimolavano proiettivamente la fantasia dei Greci.
   In linguistica, φ (phi) è segno della vita e di ciò che dà vita: da notare le parole che hanno inizio con la effe: femmina, fessura, fica, feto (colui che vien fuori, alla luce), Fetonte (figlio del Sole), fiore (che darà il frutto della natura), frutto, fertilità, fecondità, fallo (colui che dà la vita), falò (che dà luce) facondo, fonte, favola; sono termini che indicano ciò che “vien fuori”, che aprendosi dà vita. Ma, anche proli-fica (da facio, fare, creare) è colei che genera molta prole.

Nelle simbologie che operano in questo campo, va ricordata una anonima canzone siciliana intitolata La Ficu che recita così:                                                                                                “La vitti ’mpintaa ’n-árvulu/ la ficu ca pinnìa/ 
Ed era trôppu âuta/ piġğhiari ’n-la putìa/ Di sutta taliànnula/ lu meli ci currìa/ 
Di `đa vuccuzza  amabuli/ lu meli ci spannìa/ 
Essennu sutta `đ’arvûlu/ ’na rama `n’affirrai/ 
Ficuzza mia, certissumu/ `pi `certu ti manćiai. [3]







[1] Le none corrispondono al 7 luglio. (Vedi à  Macrobio, Saturnalia, Utet, p.189/191)
[2] Vedi à Gemoll, Vocabolario Greco-Italiano, Sandron, 1951, p. 970
[3]  La vidi appesa a un ramo, la fico (va tenuta al femminile) che pendeva/ ma era troppo alta e non potevo afferrarla/ Guardandola di sotto vedevo scorrere il dolce miele da quella amabile boccuccia/ (Però) essendo sotto l’albero riuscii ad afferrare un ramo e certamente Ficuzza mia, riuscì a prenderti e a mangiarti. (F. Paolo Frontini, Eco della Sicilia, Ricordi, 1936, p.7-9). Il tema del frutto appeso al ramo e non raggiungile è allegoricamente presente nella letteratura antica. Da ricordare la poesia nella quale Saffo paragona il suo amore a una mela: “Come la mela alta rosseggia sul ramo più alto/ La dimenticarono nella raccolta. No! non la poterono cogliere. (Saffo, Fr. 105 a)

                                                 Gino Carbonaro

Cunnu & Cunnura, storia etimologico-linguistica


Cúnnu, cunnùra, cuđdùra, cúđdurèđda


di Gino Carbonaro



Cunnu è sinonimo di ştìçċhiu. L’etimo è latino: cunnus è la vulva, quella che ha la forma di “V” o di un cuneus. Cúnnus o cunnùra, in latino, era anche il nome di un pane, che aveva la forma compatta del sesso femminile. Quando le donne finivano di impastare la farina, davano una forma vagamente ovale al pane, quindi segnavano il centro con un colpo della mano a taglio, infine ripassavano la parte incavata con un coltello: era il taglio, che durante la cottura nel forno, si allargava lentamente, e si arricciava e si indorava al centro (riđdu) prendendo la caratteristica forma del cunnus.

Nella mitologia greca, orzo, frumento, pane, e il dolce, succulento e calorico frutto del fico, erano sacri a Démetra (Dea-mater) divinità greca della vita e del femminino, che aveva fatto scoprire al genere umano i cereali e i frutti che danno energia, e consentono all’uomo di stare in posizione eretta: la cúnna (o cunnùra) era dedicata a Démetra. Questo pane, solitamente di orzo (nella Grecia di una volta) e di grano duro (in Sicilia), si fa tuttora in quasi tutti i paesi della provincia di Ragusa e ne conserva la forma, trasmessa dalla tradizione, e il nome: cuđdùra (e/o cunnùra). Gli uomini, ai quali le donne lo porgono, lo mangiano ancora con gusto e piacere. C’è da rilevare che la cunnùra, prima di essere infornata veniva baciata, e kunéo (κυηέω) in greco vuol dire “baciare”: cunnùra è, anche, “colei che si bacia”, e il pane si baciava prima di essere infornato. Le donne di una volta, facendosi scherzosamente i complimenti fra di loro, erano solite dire: “Ha’ ’na cuđduređda a `mênz’ê cosci” (ha un panetto in mezzo alle cosce): il riferimento era alla forma turgida del sesso femminile.

Sempre a Scicli, pistòlu è forma di pane al maschile, così come la cuđdura è forma di pane al femminile. Etim. il termine deriva dal latino pistor-ōris = fornaio, ma vuol dire anche pestello o pestone. Come dire che, a pranzo e cena, i nostri progenitori mangiavano pane propiziando la vita sulla tavola imbandita: lo prova la forme itifallica del pistolo e il simbolo del sesso femminile nella cuđdura o cunnùra, l’antico pane latino, il cunnus.   

In tutte le cose serie, qualche volta non manca un tocco volgare. Nella Sicilia antica, poteva accadere che due donne litigassero. E se la cosa per la quale si litigava non piaceva ad una delle litiganti, era possibile che volassero frasi pesanti del tipo, per esempio:"Anfilatillu nto cunnu!"  E così tutto finiva nel basso corporeo! 

                                                               Gino Carbonaro

Scheda da "La Donna nei Proverbi Siciliani, Thomson, Oxford, 2003

Considerazioni allegate da Antonella Spadafora da Cosenza

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cucù
Il fatto che in fiorentino il coniglio venga chiamato “conigliolo” mi ha sempre fatto sorridere, pensavo fosse una storpiatura vezzeggiativa, come accade con ”figliolo” …. se in Toscana le cose si chiamano come si chiamano, però, c’è sempre un motivo sotto, come ho avuto modo di rendermi conto mille e mille volte, e in questo caso la parola conigliolo riflette ancora meglio di coniglio l’etimo della parola, dal latino CUNICULUS, che vale tanto per l’animale quanto per via o foro sotterraneo (da cui “cunicolo”).
Per traslato, dunque, l’animale viene identificato con la sua tana, poichè l’abitudine di scavare cunicoli lo caratterizza e lo identifica.
Cosa bizzarra, o forse no, durante un corso di Filologia Romanza alla Complutense la docente ci fece notare come il coniglio e il cunicolo condividessero la radice etimologica anche con la parola latina che  indica popolarmente i genitali femminili, cunnus (cosa cava, fessura, buco), da cui il castigliano coño e il francese con, e non solo: in tutti i nostri dialetti meridionali u cunnu significa la stessa cosa.
E non è un caso, ovviamente, che il coniglio (e la lepre con esso) sia un animale archetipo del mondo simbolico sessuale, del bestiario selenico, associato alla semantica della fertilità. Anche la festività della pasqua nelle sue origini pagane (si celebrava Eostre, dea assimilabile a Venere, e la parola per Pasqua in inglese è appunto Easter) vede la lepre associata alle divinità della luna, dunque ai cicli della fertilità.
E, cosa interessantissima, in Sicilia si fa ancora un pane che, ci spiega Gino Carbonaro (e mi compiaccio della scoperta del suo blog!!!!) è dedicato a Démetra, la Dea Mater che ha fatto scoprire all’uomo i frutti e i cereali. Questo pane si chiama appunto cuđdùra:
Cúnnus o cunnùra, in latino, era anche il nome di un pane, che aveva la forma compatta del sesso femminile. Quando le donne finivano di impastare la farina, davano una forma vagamente ovale al pane, quindi segnavano il centro con un colpo della mano a taglio, infine ripassavano la parte incavata con un coltello: era il taglio, che durante la cottura nel forno, si allargava lentamente, e si arricciava e si indorava al centro(riđdu) prendendo la caratteristica forma del cunnus.        (…)
Questo pane, solitamente di orzo (nella Grecia di una volta) e di grano duro (in Sicilia), si fa tuttora in quasi tutti i paesi della provincia di Ragusa e ne conserva la forma, trasmessa dalla tradizione, e il nome:cuđdùra (e/o cunnùra).
E allora mi è proprio venuto spontaneo pensare, e speriamo che Gino mi legga e mi risponda, ai cúđduriađdi cosentini, che sono ciambelle salate e fritte di pasta di patate, tipiche della vigilia di natale: servono a spezzare il tradizionale digiuno del 24 dicembre in attesa dell’abbondante cena.
la pronuncia del nome distingue i cosentini doc dai limitrofi, perchè bisogna essere indigeni per riprodurre il suono cacuminale della d!! Spesso si vede la grafia “cuddruriaddri” e fuori da Cosenza, in Sila ad esempio, li chiamano Cullurialli o Cullirielli, perchè il suono cacuminale nella loro varietà dialettale non esiste.
Quello che mi chiedo è se le nostre ciambelle cosentine si chiamino così perchè sono dei piccoli pani con un buco nel centro, così da rappresentare una forma propiziatoria e ben augurale! 
Dal blog qui sotto riportato
Blog Name: Lost in Arno
Blog Name: Lost in Arno
                                                                              Blog URL: http://lostinarno.wordpress.com