2012/11/28

Sergio Givone "Metafisica della peste" saggio di Salvatore Scalia impressioni


Sergio Givone scrive "Metafisica della Peste" Eunaudi, pp. XVIII, 206, 

€ 22,00


Salvatore Scalia lo recensisce sul quodidiano "La Sicilia con questo titolo 


Fuoco, forca e oro

i rimedi siciliani

contro la pestilenza



Ignis, furca, aurum sunt medicina mali. Questa la formula sintetica ed efficace del medico Giovan

Filippo Ingrassia, nato a Regalbuto nel 1510 e morto a Palermo nel 1580, per affrontare la peste
che flagellava la Sicilia nel 1576. Ne scrisse un trattato "Informatione del pestifero et contagioso
morbo il quale affligge et have afflitto questa città di Palermo et molte altre città e terre di questo
Regno". "L'oro per le spese, - commenta il grande storico Carlo Cipolla nel libro "Contro un nemico
invisibile" (Il Mulino 1985) - la forca per punire chi violava le disposizioni sanitarie e spaventava gli
altri, il fuoco per eliminare gli oggetti infetti."

Per il protomedico la pestilenza era un fatto pratico: occorreva evitare il propagarsi del contagio,
isolare le vittime, purificare tutto ciò che era stato a contatto con esse, e, soprattutto, evitare il
caos sociale, le isterie e il diffondersi di psicosi di massa.

Anche riguardo agli oggetti non tutti erano ritenuti ricettacolo della pestilenza ma si distingueva
tra vetro e metalli, che ne erano immuni, e piume, pellicce, lane, coperte, stracci. "Le idee - dice
Cipolla - erano vaghe e non confortate da sperimentazione, ma non erano assurde. Noi sappiamo
che la peste bubbonica è trasmessa dalle pulci, e stoffe, pellicce, piume e tappeti offrono più
facile ricetto alle pulci che altre merci. La razionalizzazione del fenomeno da parte degli uomini del
tempo era ingenua, ma alla base stava un'osservazione attenta dei fatti."

Il risultato fu che a Venezia la peste causò sessantamila morti e a Palermo tremila.

Fatte le debite proporzioni, la stessa asimmetria si verificò tra Modica e Scicli, città separate
da tredici chilometri, per la peste del 1626, nella prima agì lo spirito pratico e le vittime furono
contenute, nella seconda la popolazione fu decimata.

Sulla peste a Modica ha scritto nel 1966 un saggio, acuto e brillante, lo scrittore Raffaele
Poidomani (1912-1979). Due sono i protagonisti principali di quella battaglia contro l'infuriare del
morbo: il governatore e capitano d'armi Paulo La Ristia, l'uomo che aveva bonificato il sito dove
sorse Vittoria, e il medico Pietro Manardo. L'uno ebbe polso fermo e prontezza di decisioni, l'altro

si sacrificò con abnegazione e sprezzo del pericolo.

Invece di almanaccare sulle cause della peste, punizione divina o congiunzione astrale, la prima
cosa a cui si pensò fu di procurarsi il denaro e le derrate alimentari per far fronte all'emergenza.

"Al primo insorgere del male - scrive Raffaele Poidomani - viene emanato un ordine perché, stante le pene
stabilite in calce ai contravventori, si ottenga una somma da pagarsi dagli abbienti, garantita sotto
forma di prestito forzoso, oltre ad una sufficiente quantità di grano per vitto di poveri, estratto
sempre dai magazzini dei ricchi con lo stesso sbrigativo mezzo."

I quartieri poveri dove maggiore infuria il morbo vengono sigillati, le case sbarrate, si ordina
di non mangiare pane o altro cibo toccato da animali e in particolare dai topi. Si organizza
l'approvvigionamento dell'acqua e la purificazione dei luoghi contaminati. Tutto vien posto sotto
ferreo controllo, sia l'uscita dei contadini per lavorare in campagna, sia gli spostamenti degli
animali domestici.

Questo pragmatismo contrasta con le proprietà curative che si attribuivano alle pietre preziose
e con i micidiali intrugli che prescrivevano fino al Settecento medici di fama. Poidomani ne dà la
composizione e poi commenta: "Ciò è ancora in uso quando già da oltre un secolo l'Ingrassia aveva
usato l'isolamento, la purgazione, la pulizia del corpo e i lavaggi con aceto e stabilito che i liquidi
che si potevano bere erano vino, aceto e sidro, cioè i fermentati alcolici."

Nel 1894 il medico svizzero Alexandre Yersin e il giapponese Shibasaburo Kitasato isolarono il
bacillo che da millenni aveva seminato la morte. La peste sembrava fosse divenuta dominio della
scienza, una questione di batteri, contagio e vaccini. La punizione divina, già esclusa da Tucidide
nella descrizione della peste di Atene del 430 avanti Cristo e più tardi da Lucrezio nel "De Rerum
Natura", sembrava definitivamente relegata alla superstizione. Eppure il perché della peste ha
continuato ad inquietare le coscienze: è una domanda che risuona in un vuoto apparentemente
senza risonanze, in un vuoto che crea angoscia e richiede risposte metafisiche. Interrogarsi sulla
peste, che è natura e allo stesso tempo flagello, significa porsi il problema del male, dell'origine
della colpa e del destino dell'uomo.

E' questo il filo conduttore del libro di Sergio Givone "Metafisica della peste" (Einaudi , pp. XVIII -
206, € 22,00). Il filosofo ci conduce sull'orlo dell'abisso e ci costringe a scrutarne il fondo invisibile.
E ci pare d'udire una risonanza lontana, un'eco debolissima, che forse è un'incrinatura, quella stessa
che si manifesta come esigenza metafisica persino nel materialismo epicureo di Lucrezio: se esiste
la peste è perché c'è una colpa nella natura, "tam praedita culpa."

La pestilenza è sconvolgimento sociale e morale, corrode i corpi e la mente, ci riporta allo stato
primordiale, il figlio dimentica i genitori, padre e madre dimenticano i figli, si scatena la lussuria,
si perde il pudore, s'intorbidano i sensi, si vede ciò che non c'è e non si vede ciò che è evidente.
Esemplare il saggio di Manzoni "Storia della colonna infame."

Attraverso gli scritti di Boccaccio, Berni, Defoe, Manzoni, Leopardi, Camus, Artaud, Givone
riflette sugli effetti della peste e sulla sua essenza. Il morbo è divenuto sinonimo della corruzione
del cuore e dell'anima, s'insinua prima nelle parole e poi invade tutto il corpo sociale, come ha

dimostrato Victor Klemperer a proposito del nazismo; secondo Givone è metafora persino di un
mondo tornato primordiale, con pochi superstiti inselvatichiti, perché devastato da un'immane
catastrofe nucleare come nel romanzo "The road" di Cormac McCarthy (2006). La peste dunque
ci fa regredire, ci rivela la fragilità umana e il nostro nulla, e le domande che ci poniamo sono solo
quasi più di niente.

Ciao Turi,

Il saggio sulla Peste?
Mi ha fatto sentire male.
Mi ha fatto riflettere.
Pensare o non pensare?
Su tante cose.
Mi dato emozioni. Forti.

Il saggio di Raffaele Poidomani (La peste a Modica nel 1926) è bello perché dimostra
che l'Avvocato era sostanzialmente uno storico
che frugava archivi di Stato per scovare la realtà,
e costruire affreschi di vita dai frammenti recuperati
e a volte anche trafugati (eufemismo per rubati!).

Per il resto Poidomani era ariostesco, 
per il modo con cui si relazionava con l'umanità.

Ma, il tocco fondamentale, la ciliegina sulla torta è rappresentata dal libro di Givone.
Una saldatura vera fra realtà e pensiero che non scioglie i dilemmi della vita.
Questo uno dei ruoli della Filosofia in questo spazio di tempo.
Se la filosofia vuole trovare una strada, un senso, un ruolo nelle sue ricerche.
Questo saggio  affonda il bisturi su questo bubbone della realtà. Sul senso delle cose delle quali non si riesce a cogliere il senso.

Ma, la forza del tuo saggio sul Libro di Givone, è nella sintesi, e nel montaggio, delle parti. Da regista che coordina per offrire concetti e visioni. E' un tema, quello della peste (o del colera) che potresti approfondire.
(Se tu capita leggi il mio saggio su Giuseppe Carbonaro, protomedico dei Borboni). Quello delle malattie endemiche è tema non sufficientemente approfondito, ma è tema centrale dell'esistere.

Bello il riferimento a Tucidide (una pennellata!). Bello il riferimento a Camus, e agli altri.

Tu? 
Tu hai scritto un capolavoro. Di giornalismo nuovo, serio, pensato, aderente alla realtà. 
Di giornalismo, ho detto? M'è sfuggito. Tu non sei stato mai un giornalista, dentro di te.

Il tuo è stato giornalismo per vivere di giornalismo.
(L'hai già scritto tu).
Tu non sei "un" giornalista. Tu sei un Uomo.. che scrive.
Un Uomo che osserva, scruta, fruga con discrezione, cautela, saggezza e cerca (soprattutto) di non farsi vedere,
(malgrado la stazza..) e poi? Poi scrive. 
Tu sei un Maestro. Questo sei. 

E in questo saggio? Sei lo stesso "tu" (Tu..ri Scalia) che ha scritto "La Punizione". Quasi lo stesso taglio, quasi la stessa attenzione e volontà di penetrazione.

La differenza fra Givone e te? 
Givone parlerà apertamente di Male, di problemi umani e dell'Uomo per cercare di capire perché noi uomini non conosciamo i nostri simili.
L'uomo che non conosce l'uomo?
Cioè se stesso. 
Paradosso.

Tu, ne la Punizione non ti lasci invischiare. 
Non dai giudizi. Non condanni. Non ti chiedi.
Non ti pronunci. L'ho detto! Tu, non ci sei.
Tu sei uno storico, forse anche filosofo che si nasconde 
e usa ovviamente la scrittura per comunicare..

Infine (sto tornando all'articolo), bellissima la chiusura". 
Grazie. 
Per avermi inviato questo articolo.
Un abbraccio
Gino
P.S. Ora una cortesia
Perché non mi mandi (quando vuoi o puoi)  quello che scrivi (o che hai scritto).
Questo perché quello che scrivi è dono che nutre lo spirito?
Fa riflettere. Conforta le nostre giornate.
                                 
P.P.S. Su  tema attinente (a Peste e Streghe) potresti/dovresti sfogliare (tempo permettendo)
un'opera eccezionale, titolata "Forza e Superstizione" di Carlo Lea, 1909. 
Opera fondamentale della cultura di tutti i tempi. 
Enrico Carlo Lea non era italiano, ma canadese, e l'opera
scritta in inglese, fu tradotta (e forse pubblicata "solo" in italiano) da manoscritto fornito all'epoca dall'autore. 

                                                       Gino Carbonaro

2012/11/18

Pressione Arteriosa & Movimento


TRIATEC 
effetti collaterali e dannosi


Pressione arteriosa alta


Da due/tre anni, per tenere a bada la pressione alta del sangue ho preso tutte le sere, una pillola chiamata TRIATEC. Ovviamente, avevo diminuito di molto l'uso del sale (cloruro di sodio) che è causa non secondaria della pressione.


E però, come avvertono le istruzioni contenute nella confezione delle pillole, ogni prodotto farmacologico può avere "effetti collaterali".
Ma, pochi pazienti leggono il foglietto. Il nostro medico personale non è solito avvertire sui cosiddetti effetti eufemisticamente definiti "collaterali". Ma, se è riportato sul foglietto di istruzioni, la casa farmaceutica è legalmente a posto. E, come si dice? "Uomo avvisato, "mezzo" salvato".  

La storia continua

Passano i mesi, passa qualche anno. Io continuo a nutrire il corpo con TRIATEC, la pressione si abbassava, "relativamente", facendo registrare al mattino un 155 (massima) con un 80 di minima, per scendere  verso le 11,00 (del mattino) e rientrare  (ma non sempre) nella norma accettabile di un 140.

Effetti nocivi

Da più di un anno, però, ho cominciato ad avere di tanto in tanto, una "tossicola" stizzosa, antipatica, aggressiva, che notavano anche gli amici quando durante una conversazione al telefono tossicchiavo. Nel contempo, la mia testa (sul cuoio capelluto) e il mio collo si riempivano di fastidiosi e purulenti foruncoletti che scoppiavano di notte, sporcando la camicia, mentre di notte imbrattavano il cuscino di sangue. Gianni, il mio barbiere, si era accorto, e mi aveva chiesto se mi ero andato dal dermatologo. 

Intanto, mia sorella Flaminia, medico, accortasi della mia tosse  mi suggerisce di fare raggi al torace (mi confesserà in seguito che temeva un tumore polmonare). 


La visita avviene. Il radiologo osserva attentamente le lastre e scrive che tutto è a posto. Torno a casa, ricevo una telefonata da Flaminia che aveva già parlato col radiologo, e mi comunica che forse, quella tosse è causata dal TRIATEC! E se è così - aggiunge lei - la tosse, che ora era diventata molto più stizzosa, non mi avrebbe abbandonato per mesi. 

Adesso, smetto di ingoiare la pillolina di  TRIATEC e mi decido a leggere le istruzioni per capire cosa mi è stato prescritto. Qui con mia enorme sorpresa, registro l’elenco infinito degli effetti collaterali e dannosi  del farmaco, che può provocare non solo tosse, ma anche pustole nel corpo e altre centinaia di terribili,  e non auspicabili, dannosi e nocivi “effetti” collaterali. 
Dopo un paio di mesi di disintossicazione comincio a notare che la tosse si è ridotta, senza aver perduto la sua virulenza, mentre le pustolette cominciano ad essiccarsi. Per questo non sporco più le camicie e il cuscino.

Certamente, ero triste nel constatare che la  pressione era costantemente alta. A rischio (si dice) soprattutto perché sono diabetico.

Scoperta?


Ora cosa scopro! E qui la gioia infinita che mi ha portato al computer per comunicare questa esperienza in Internet.

Le passeggiate di sera


Su suggerimento di Maurice, nostro figlio, avevamo stabilito di andare a fare una passeggiata, di sera. Prima o dopo cena. La nostra strada in campagna, sotto la luce della luna o al chiarore delle stelle, si è subito trasformata in una sorta di palestra naturale. Difatti, lentamente abbiamo cominciato il riscaldamento dei muscoli, per aggiungere movimenti degli arti, flessioni, rotazioni del busto e soprattutto ossigenazione profonda dei polmoni. Dopo poche sere la risposta del mio organismo felice non si è fatta attendere. Di mattina la pressione (senza ausilio di pillole) era scesa a 146, mentre la glicemia (di me diabetico DOC) era 122. Numeri positivi che hanno spazzato via la mia piccola e cronica depressione mattutina.

Considerazioni


Il sano movimento e la ossigenazione del corpo, sono sinonimo di salute e di vita e in  certi casi.. possono sostituire le pillole e soprattutto i danni causati dal loro lungo uso

Si tratta di una semplice verità che, dà una infinità di vantaggi se si considera ancora che il movimento tiene a bada il colesterolo.


Mi viene da pensare a Ignaz Semmelweis, medico ungherese (Buda 1818-1865) che aveva intuito come la causa delle influenze puerperali (e la alta mortalità delle partorienti) era dovuta alla mancanza di igiene delle cliniche e al fatto che medici che non si lavavano le mani.
Semmelweis fu radiato dall'Ordine (dei Medici) avendo leso (si disse) l'Onore e la Dignità  della Categoria. Eppure aveva scoperto una verità semplice: necessità dell'igiene. 

Ora, anche io scopro l'acqua calda:
 
W la ginnastica 
W il movimento 

che consente di espurgare tossine, veleni, grassi e incrostazioni del nostro corpo, e quindi aiuta a tenerci lontano (ove possibile) dai farmaci.


Gino il Carbonaro (Felice!)  







mobile: +39 335 685 3 865
studio:  +39 0932 621956
email: gino.carbonaro.italy@gmail.com
address: C.P. 132 - 97100 Ragusa - Italy

2012/11/10

Indovinelli & Carnevale


indovinello & carnevale

Conferenza del 15 febbraio 2007, ore 19
Ristorante Acrille - Chiaramonte Gulfi - Ragusa

Indovinello Siciliano
fra storia e poesia


                                                        di Gino Carbonaro    


 1.  Indovinello e tradizioni popolari

     Sino a qualche decennio fa, l’indovinello è stato parte integrante del nostro patrimonio culturale, delle nostre tradizioni popolari.
     Da qualche anno, invece, l’uso di proporre indovinelli sembra passato di moda. Se ne parla ancora, ne parliamo adesso, ma come di cose che appartengono ad un passato remoto.
     Le nuove generazioni non sanno di indovinelli, né delle abitudini siciliane di un tempo. 
    Nelle scuole, i maestri invitano i loro alunni a fare ricerche, a raccogliere indovinelli in famiglia, giusto per non perderli, per salvare il salvabile, ma la loro morte è stata decretata.
  Proprio tre giorni fa era martedì grasso, ma nessuna famiglia, riteniamo, si è riunita attorno a un tavolo per godere di un momento, che una volta era autentico, sentito ed atteso. Eppure, sino a qualche decennio fa era prassi che nel periodo di Carnevale tutte le famiglie (famiglie patriarcali) riunite attorno a un tavolo trascorressero le serate sfidandosi a gara negli indovinelli.
     Non c’era televisione, né discoteche, né svaghi notturni, il passatempo era sano, e la consuetudine risaliva alla notte dei tempi. 

2. Carnevale veniva anticipato dagli indovinelli


    Per entrare nel tema soprattutto per capire la storia dell’indovinello, è necessario tener presente alcune cose:

-        Che l’Indovinello è figlio del Carnevale.
-        Che gli indovinelli potevano essere recitati solo nel periodo di Carnevale, per una durata massima di tre, quattro settimane, nell’arco di tutto l’anno. Fuori di questo periodo era proibitissimo proporli. Se qualcuno ripeteva un indovinello durante uno dei periodi non canonici, cioè fuori dal periodo del Carnevale, si era soliti intimare "Attentu ca ti cammiri!" Era peccato mortale ripeterli. Era proibito dalla Chiesa, dalla tradizione? Nessuno sapeva dire perché. Ma, era proprio così.
-         Va ricordato ancora, che il  fatto che si stava per entrare nel periodo di Carnevale, veniva dato proprio per mezzo degli indovinelli. Vediamo come:  

    Dopo l’epifania (ma non c'era un giorno ben definito)  qualcuno in famiglia recitava a sorpresa con un indovinello. Era "sorpresa", ma era proprio quello il segnale che qualcosa stava cambiando nell’aria, e che si era entrati nel periodo del Carnevale.

     Lentamente, poi, ma sempre più intensamente, venivano proposti indovinelli, sempre nei momenti più impensati.  Anche da persone sconosciute.
     Una donna era in casa badando alle proprie faccende? Una vicina si affacciava alla porta, lanciava un indovinello e sorridendo si alluntanava, lasciando l’interlocutrice a lambiccarsi il cervello nel tentativo di trovare la giusta risposta a quella strana combinazione di parole della quale bisognava trovare la soluzione.
     E ancora. I lavoratori (muratori, contadini) sempre nel periodo di Carnevale. Si fermavano per pranzare? C’era subito qualcuno che proponeva un indovinello, mentre qualcun altro era pronto a continuare. Ed era gara per vedere chi ne diceva di più, chi proponeva il più curioso, il più difficile da indovinare.

3. L’indovinello come sfida

     In verità, l’indovinello non veniva proposto, quanto piuttosto lanciato come guanto in segno di sfida improvvisa alla persona, o alla intelligenza della persona. E la sfida andava raccolta. Ricordo con quanta attenzione si ascoltava l’indovinello, con quanta tensione si cercava di decifrarlo, e quanta gioia ancora accompagnava colui che riusciva a dare la giusta risposta.  A vincere la sfida. E, parimenti, era facile immaginare quanta mortificazione e umiliazioni lasciava registrare nel viso colui che non riusciva a rispondere, facendo la figura di uno che non vale niente.


4. L’indovinello è verità mascherata

     A questo punto, viene naturale chiedersi, che rapporto c’è fra Indovinello e Carnevale?
   
     Diciamo subito che, l’indovinello è una verità mascherata. Una verità che non vuole farsi riconoscere, e perciò indossa una maschera depistante.
    Adesso il problema si sposta sul Carnevale, e le domande potrebbero essere altre: “Perché ci si maschera in generale? Perché ci si maschera a Carnevale? E, Carnevale cos’è?” Ben sapendo che:
-  Carnevale è la prima festa dell’anno.
-  Carnevale non è una festa religiosa.
-  Carnevale è festa che esiste senza esistere, perché non è segnata in calendario, né è previsto alcun giorno di vacanza dal lavoro o a scuola.

     È così che torniamo a chiederci:
- Cosa è il Carnevale?
- Quando è nato?
- Se Carnevale ha degli antenati?
- C’è un rapporto fra Carnevale e la medievale Festa dei Folli, fra Carnevale e i Lupercali latini, e i Saturnali romani e i Baccanali greci?  Tutte feste primaverili, tutte feste in maschera, tutte feste in cui erano consentiti comportamenti che sarebbero stati perseguiti in altri momenti dell’anno.
      Ma, a guardar bene, anche all’indovinello era concesso di vestire se stesso con un vestito osceno, a Carnevale. Ma, solo a Carnevale!        

5. Il sesso era tabù. Una volta. In Sicilia.
   
     È risaputo che la maggior parte degli indovinelli si presentava con forti referenti sessuali. E questo si verificava in una società dove per tradizione il sesso era tabù. Dove nessuno osava pronunziare la parola “partorire”, solo perché avrebbe potuto essere collegata a sesso (che era peccato!). Eppure, a Carnevale, si rompevano gli argini, e tutti ripetevano a gara indovinelli di un osceno che più osceno non si può. E chi scrive racconta che da piccolo era rimasto sconvolto da questa doppia anima della società.
     Che il sesso fosse tabù, qualcosa di cui non si doveva parlare, lo si capiva quando i genitori discutevano fra di loro di argomenti “scabrosi”, e il loro ragionare si ingarbugliava, si caricava di doppi sensi e di ambigue allusioni, mentre occhiate ladre cadevano sui bambini per verificare sino a che punto avessero potuto capire ciò che non avrebbero dovuto sapere. Invece, i bambini capivano che, quando si parlava di sesso, dovevano fare finta di non capire! Perché il sesso era una cosa disdicevole!
     Questo, in qualsiasi momento dell’anno. Inspiegabilmente, però, le cose si capovolgevano nel periodo di Carnevale.
    
5.   Indovinelli sboccati.                                                
       A Carnevale non si scontravano con la morale.

     Proprio qui sta il problema. Perché, gli indovinelli erano per la maggior parte sboccati, riferiti a quelle parti del corpo che la decenza comune evita di menzionare, e che per tutto l’anno erano coperti dal tabù, dalla morale, dalla religione, dal galateo: si è detto galateo, perché un tempo, le persone che nominavano parti del corpo sporche, i piedi per esempio, prima di nominare la parola erano soliti dire: “Con rispetto parlando, mi facevano male i piedi!” A Carnevale, invece, le stesse persone mettevano da parte il rispetto, e per non si sa quale motivo, finivano per recitare a diluvio, senza freni, `niminagghi `malaccriati, indovinelli osceni davanti a tutti:  grandi e piccini, maschi e femmine, donne sposate e vergini, servi e padroni, monaci e monache, senza che ciò si scontrasse con la morale, senza che ciò facesse arrossire il viso a qualcuno, o provocasse vergogna, sensi di colpa o sanzioni: solo risate, solo gioia e ilarità.
     Chi scrive, da bambino, ha vissuto questa esperienza di schizofrenia sociale, e rifiutava di credere alle sue orecchie correndo con lo sguardo da sua madre a sua nonna, da suo padre a suo zio, ai parenti tutti che buttavano giù mucchietti di versi riferiti a qualcosa di molto pesante, subito supportato da un giuramento sornione:

Beđda maŧŗi `maculata
nuň è `cosa malaccriata.[1]
   
     Era certamente un enigma questo comportamento doppio delle persone e soprattutto delle donne, cui era socialmente concessa solo a Carnevale la possibilità di parlare liberamente sotto la copertura. Così, la donna che in altri momenti dell’anno si dimostrava rispettosa della morale, delle buone maniere e di quanto era riferito al sesso e all’atto sessuale si liberava parlando con diritto di parola.
     Ma, ascoltiamo qualcuno di questi indovinelli piccanti.

  1. A fimmina ca è di sutta joca e sciala,
  2. ’u maşculu ca è di supra si conšuma.
              La femmina di sotto gioca e gode
              Il maschio che sta di sopra si consuma.
                                                         Si tratta del formaggio (ca è masculu)
                                                                             e sta di sopra e della grattugia (di una volta) 
                                                                             (ca è filmina) e che stava di sotto.

  1. Ta ma' ch'ê cosci apêrti                                                  
  2. Aşpetta a `mia ca ci la `mêttu
                                           (pentola che attende (la madre) e pasta)

  1. Pi-lliccu pi-lliccu,
      nt’ô culu t’a ’nficcu
                                                (filo e ago)
                                                               Con rispetto parlando!

  1. Ta mintu nt’ô culu                                                                    
  2.  e m’â `diri grazi!     
                                                 (sedia)
                                                                           Sempre con rispetto parlando!


  1. Dammi ’u culu comu mi l’ha’  datu
      ca ti lu juru ca ’uň è piccatu.            

                                                                            (sedia)

  1.  È robba di culu
       e `merda nuň è.
                                                      (uovo)

  1. Ncugna maritu                                                                       
    • ncugna, sputazza
  1. appuntiđda i pêdi ô muru, 
  2. nfilala nt’â şpaccazza.
                                             (ascia/accetta)

  1. Di fora pilu, di dintra pilu,
      spinci l’anca che t’a ’nfilu.     
                                                        (pantaloni di pelle di capra)
    
  1. ’U viscuvu l’havia lonća
’U papa l’havia ri cciu
’A monĭca çiancia
 Ca cciù lonća la vulia.      

                                           (tonaca)

  1. Trasi dura e nesci mođda 
                               (la pasta, gli spaghetti)

  1. Trasi asciutta e nesci vagnata  
                                                     (pasta)

  1.  A ża Cicca si curcau,
 u żu Ciccu ci accravaccau,
 menza canna ci ň’anfilau!
                 (’A briula, ’u briuni)

   Quest’ultimo indovinello sembra dire che una non identificata "zia Francesca" (ża Cicca) era andata a letto, che suo marito si era messo sopra di lei (a letto), e che lì era accaduto qualcosa (menza canna ci ňi ’nfilau) che decenza e decoro non ci consentirebbe di ripetere.
     Questo “sembra dire” l’indovinello così come è montato. Ma, la realtà era un’altra: ’a ża  Cicca è il piano di legno, dove una volta si impastava il pane (’a `briula); ’u żu Ciccu, il maschio, era l’asse (!) di legno che serviva ad impastare il pane (’u `briùni); la menza canna che entrava dentro la ża Cicca era il chiavistello di legno (’a tinniggia) che teneva insiema il piano e l’asse, o se si vuole ’a `brìula e ’u `briùni.
  
   È qui che si rivela la caratteristica dell’indovinello: la risposta vera non è quella che appare più ovvia e scontata, ma un’altra, quella che non si vede, ed è nascosta nel labirinto depistante delle parole.

    Anche l’indovinello, a Carnevale, si presenta come verità che ha indossato la maschera, mentre invita l’interlocutore a indovinare cosa si cela dietro questa maschera.
     La soluzione c’è, ma è il risultato di una capacità umana: quella di spingersi al di là delle apparenze, di andare dove non si vede, ma c’è la verità.
     Dunque, non c’era nulla di male nel ripetere ad alta voce, anche davanti ai bambini, questi indovinelli. Se qualcosa di male sembrava esserci, quella era la maschera, ed era solo allusione ed illusione. Quello che conta nella vita, ben si sa, è la sostanza[2] delle cose non l’apparenza, e l’argomento era candido nella sostanza, osceno solo nella forma, che, si sa, non ha valore.



6. L’indovinello propone un doppio se stesso


     Lindovinello è una verità mascherata, ed è quello che propone un doppio-se-stesso, dove, la verità è quella che si nasconde sotto la maschera, per pervenire alla quale l’ostacolo è rappresentato dalla interferenza della prima attribuzione logica, quella che ci porta a pensare ad un rapporto sessuale.
   
     I messaggi dell’indovinello sono in realtà due:

  1. uno scoperto e comprensibile
  2. l’altro nascosto e da scoprire

     Dunque verità doppia:[3] (double) che mette in dubbio il concetto di verità, e pone la realtà nella sua valenza ambigua, che si svela (e può essere scoperta) grazie a due componenti umane:

  1. la volontà-necessità di pervenire alla soluzione del quesito, e
  2. la forza mentale e logica per poter risolvere il problema.

     Si deduce così che, se la realtà indossa la maschera, la verità si pone sempre come enigma legato contemporaneamente al concetto di maschera e a quello di ragione.


7.  La maschera è una armatura     

     Ragione e maschera diventano protagonisti o simboli di una lotta-confronto antica quanto il mondo, che da sempre l’uomo si è trovato a combattere per districarsi nei labirinti delle incertezze, per trovare le soluzioni ai mille dilemmi che la natura gli pone quotidianamente davanti,  per sciogliere, insomma, i  nodi gordiani [4] della vita.
     Maschera, dunque, perché tutta la realtà risulta schermata/celata/coperta da un involucro altro.
     Ragione, perché è la ragione lo strumento “forte” del quale l’uomo si serve per capire-e-carpire, parare o pre-parare, in attacco o in difesa i colpi di una Realtà che si presenta doppia, infida e mascherata.
     Sfida, questa dell’enigma-indovinello, che simula nel piccolo, l’altra, quella vera e grande, che la Natura lancia quotidianamente all’uomo, e al suo strumento di massimo potere e di conoscenza, alla sua intelligenza, a quella che è in grado di inter-legere, cioè di leggere fra le righe di tutto ciò che è offerto come complicato/ complesso/strutturato/articolato e in ogni caso nella sua forma costitutiva che è per l’appunto enigmatica.
     Enigma, dunque, o verità mascherata, in quanto surroga la realtà, quasi a voler dire che tutto ciò che ci circonda custodisce o nasconde se stesso dietro un inestricabile labirinto di elementi che proteggono difendono e depistano l’avversario.


8. La maschera è il simbolo della vita, che è per l’appunto mistero.


     Sono le apparenze delle cose, quelle che la realtà ci presenta. Chi può dire cosa si cela dietro quelle maschere? Chi può di ognuno di noi indovinare i pensieri, le intenzioni, le volontà recondite? Se siamo portatori di bene o di male? Se si cela verità o menzogna dietro ogni parvenza di maschera-persona?[5]
     Tolta la maschera c’è verità? o, altre possibili maschere? Chi può dire cosa sono gli altri, se noi, per primi, simuliamo o dissimuliamo, per amore o per calcolo, agli altri, vicini o lontani, amici o nemici i nostri pensieri? Non è forse maschera la nostra? E non siamo forse un enigma, noi a noi stessi? Sappiamo forse chi siamo? Cosa vogliamo? Perché viviamo? E non è mascherato anche il nostro futuro, quello che incombe come una spada di Damocle su ognuno di noi? Tutta la Natura e il Destino si presentano all’uomo in una forma doppia, in una catena ininterrotta di possibilità alterne e “cornute”, ambivalenti e miste, perché il mistero è “miste[6] cioè doppio. Dunque, non solo l’indovinello e il Carnevale, ma anche la Natura è enigma: la maschera il loro simbolo, il simbolo della vita, che è per l’appunto mistero.

    
9. Sfinge, Uomo, Enigma

    Per questo l’enigma è presente in tutti i popoli della terra, quasi sempre legato a funzioni misteriche e religiose. Famoso fra tutti il mito di Edipo e della Sfinge, che simboleggia la sfida offerta all’uomo da tutto ciò che ha la maschera, della natura, e dall’enigma, ancora, come arma del duello che vedrà soccombere inevitabilmente lo sconfitto.
     Racconta la leggenda che Dioniso-Bacco, per vendicarsi di un torto subito dai Tebani aveva mandato la temibile Sfinge contro questi ultimi.
     Accovacciata su una rupe antistante la piazza del mercato in Tebe, la Sfinge sceglieva le sue vittime tra i passanti e a questi poneva un enigma cantandolo nel modo tipico degli oracoli. Ma, l’enigma era stato fornito dal Dio, e l’oracolo che parla in nube et aenigmate è voce di un Dio che va pure indovinata, per questo si diceva che l’uomo doveva a-divinare o in-divinare, quasi a voler indicare che sciogliendo l’enigma si rubava la verità a-Deo, oppure che si riusciva ad entrare in-Dio (indovinare, indivinare) nella sua mente, nel suo esser vero.
     L’enigma, famoso, posto dalla Sfinge, che è la maschera per eccellenza, suonava così:

“C’è sulla Terra un animale che può camminare 
con quattro, due o anche tre gambe
ed è sempre chiamato con lo stesso nome.
Quando egli cammina appoggiato
ad un maggiore numero di piedi
la velocità delle sue gambe è minore”.

     Non è importante sapere cosa poneva l’enigma, quanto piuttosto il referente mitologico. La sfida fra Sfinge e Uomo era paritaria. La Sfinge, che è poi la Natura o Diòniso (che è lo stesso) poneva l’enigma: se l’uomo risolveva l’enigma la Sfinge sarebbe stata sconfitta e perciò sarebbe stata costretta a soccombere. Se invece è l’uomo a non risolvere l’enigma, allora sarà quest’ultimo ad essere sconfitto dalla Natura. Nell’un caso e nell’altro il rapporto fra l’uomo e la Natura ha come posta in gioco la vita.


10. Enigma

     Nel suo primo apparire l’enigma si pone come prova di abilità-logica, non dissimile da altre prove di abilità, che si manifestano in giostre, gare, corride, ma anche nel gioco della carte, che chiama in causa la sfida al Destino, il concetto di vita e vittoria, di sconfitta e morte. Simboli e principi pur sempre ricorrenti nel Carnevale.
     Nel mito di Edipo, come in qualsiasi gara, sono presenti i concetti forti della vita:  la sfida, il  rischio,  la  maschera, la ragione (quella alla quale si appella Edipo)  la  possibilità  della vita che è nella  vittoria,  e della  morte in seguito a sconfitta.
     Chi supera la prova (e l’enigma è forma suprema di sfida) vince e vive; che è sconfitto, perde e muore.
     Questa è la logica spietata della Natura, che è poi la logica di Diòniso e della Sfinge, senso arcaico e sotterraneo che presiede alla logica dell’enigma; e che, simbolicamente, ritornano  nel Carnevale,  là  dove sono  presenti  gare,  sfide, prove di abilità che se vengono superate danno all’uomo l’illusione di poter vincere contro la Natura, quando si presenta come portatrice di male. 
     Lo schema è in ogni caso visualizzabile nel seguente flow-chart:


natura =  realtà =  dioniso
(doppiezza: bene-male)
sfinge
maschera
enigma
mistero
aggressione
sfida  - lotta  - prova
difesa
maschera
come armatura depistante
Ragione
Logica Lineare
Scoperte forti arcaiche


     Se la realtà indossa la maschera si deduce  che  la verità è presente sotto  forma  di enigma,  legato  al  concetto di maschera e, di riflesso, a quello di ragione:

Uomo   contro   Natura
Ragione   contro  Maschera
    
     Sono protagonisti e simboli di una lotta-confronto: lotta,  che da sempre l’uomo ha dovuto  combattere per necessità contro la natura: maschera,  perché tutta  la  realtà risulta schermata, coperta da un involucro altro.


11. L’enigma di Edipo e i Dubbi 
      Dalla Grecia antica alla Sicilia


     La mia sorpresa, come ricercatore, non è stata poca, quando mi sono accorto che il mito di Edipo era lo stesso che re-citava mia nonna, quando mi avvisava che si trattava di un Dubbio e non di un indovinello:

Qual è quell’animale
che da piccolo cammina con quattro piedi
da grande con due e da vecchio con tre?
E quando cammina con più piedi
non sa correre? 

    Un filo sottile lega, dunque, la storia del passato a quella presente: la storia delle maschere antiche a quelle dell’odierno Carnevale dove tutto è condito da risate e scherzi, anche pesanti e licenziosi per i quali però a nessuno era consentito offendersi. [7]


12.  Mercoledì delle Ceneri e la fine del Carnevale


     Ogni divertimento e gioia, ogni concessione e deroga alla licenza, finiva a mezzanotte in punto del martedì grasso, quando in piena notte giungevano i lugubri rintocchi delle campane che suonavano il tenebroso mortorio (pulvis es et in polvere reverteris): era il mea culpa a ricordare che Carnevale era finito e che si entrava nel Mercoledì delle Ceneri o dei pentimenti e della espiazione dei peccati, e con essi nel periodo della Quaresima.
     Da quel momento la consegna terribile era una soltanto: guai a proporre un solo indovinello. A tutti veniva ricordato che trasgredire a quell’ordine era peccato mortale. Mia nonna ricordava a tutti: “Zíttiti, ca ti càmmiri!”. Io non capivo cosa volesse dire quel “ti càmmiri”, ma intuivo qualche sventura se avessi continuato a recitare indovinelli.
     Così, tutti si rientrava nella norma: ciò che era stato scoperto (il tabù) tornava a coprirsi; ciò che era stato coperto (i visi mascherati) tornavano a scoprirsi, la gente tornava seria, tutto si ricomponeva e le cose riprendevano il corso naturale, così come era stato prima del Carnevale. Il rito esorcistico-propiziatorio del Carnevale era finito. 
     Era processo naturale questo avvicendarsi contraddittorio di due aspetti della realtà, ma, nessuno riusciva a spiegarsi il perché tutti sapevano che a Carnevale ogni scherzo vale e chi si offende è un gran maiale, e anche che semel in anno licet insanire, che una volta l’anno a tutti è consentito perdere la ragione, sospendere il giudizio, evitare di chiedersi il perché degli eventi. 

                                                  Gino Carbonaro
gino.carbonaro.italy@gmail.com

( --> Vedi file: Carneval, Enigma pag. 67)



Altri indovinelli

1. Cu è ca sta-pi a moddu tutto l’annu
     e nuň infraçirisci mai?                               (pesce)                       

     Nell’indovinello siciliano si  pone l’idea di qualcosa di impossibile che pure è possibile. Nell’acqua, tutto subisce una inesorabile trasformazione. È certo impossibile che qualcosa possa restare in acqua senza marcire. 

2.  ’Nzirtàtimi cu è ca vota ’u culu o re?   (cocchiere)

     Mi si dica, di grazia, chi può essere tanto insolente (o, incosciente) da voltare le spalle al re? La risposta (scontata) dovrebbe essere: “Nessuno”. Invece, l’intelligenza scopre una possibilità-positiva: il cocchiere è colui che di necessità gira le spalle al re. Così il paradosso è solo apparente. 

3. Nuň ha vucca e parra,
    nuň  ha-vi  pêdi e camina.                         (lettera)

Altro paradosso, altra cosa impossibile. Difatti che può parlare se non ha bocca e chi può camminare se non ha gambe?


Indovinelli osceni

’Ntò, ’Ntò,
mintammilla i davanti
ca d’arreri nun ci vidu.

     È una frase colta al volo, che all’ascoltatore poteva offrire un doppio significato, uno quello normale; difatti, la buona Concettina, rivolta ’Ntò suo cognato, lo esortava a mettere la Lanterna davanti, com’è logico, in quanto, se continuava a tenerla di dietro (la lanterna) non avrebbe potuto vedere. Dunque c’era buio.
     La seconda interpretazione, coglie l’allusione metaforica, oscena o carnevalesca. Difatti cosa può chiedere  una donna a un uomo? a metterle davanti cosa?  
     L’indovinello con il riferimento al sesso mette l’interlocutore in imbarazzo rendendogli difficile la decifrazione dell’enigma, che non verrebbe mai risolto senza l’aiuto malizioso del dicitore. Si tratta, si è detto, della Lanterna, che risaputamente, quando si procedeva al buio nelle notti oscure di una volta andava messa davanti. 

     A questo punto il discorso continua, l’indovinello passa di mano e la vendetta non si lascia attendere. Chi non ha saputo risolvere il quesito risponde:

(Pil-)liccu, (pil-)liccu,
’nt’o culu t’a ’nficcu.

     L’indovinello simula l’atto di vestire l’ago. Cosa fa la donna per fare entrare il filo nella cruna: lecca, lecca il filo e poi lo infila. La cruna è detta culu, per portare fuori strada, è in realtà ci riesce, perché nessuno può indovinare se non è aiutato. La risposta nel giro dei dicitori non si lascia attendere.

T’a mintu ’nto culu e m’h’a diri grazi.

     Il riferimento è fatto anche stavolta a un oggetto comune, alla sedia, la quale ricorda, per l’appunto, che bisogna sempre ringraziare chi ti avvicina o te la mette (la sedia) a portata di mano o a portata di sedere, specialmente quando si è stanchi.

     A botta e risposta,

P’amuri di Diu e di li Santi
Livàmila d’arreri
E mintìmila davanti.

     Nel livello osceno il gioco è sempre riferito a qualcosa che va tolto di dietro e va messo davanti, ma in questo casa la risposta è di un candore assoluto.

     In chiesa di solito si stava seduti durante la funzione, ma, quando ci si alzava, gli anziani erano soliti spostare la Sedia e metterla davanti. Veniva utilizzata per appoggiarsi quando l’orante si piegava in avanti. La prassi era riferita ai vecchi che non riuscivano a inginocchiarsi e si piegavano appoggiandosi alla sedia che avevano posto davanti a loro.

     Solo chi pensa male può ritenere che questo indovinello sia sporco, mentre in verità non nasconde nulla di male. 
     Il trucco sta nel fatto che nessuno fa riferimento al soggetto della frase e quindi dell’indovinello.
     Quando, poi, il dialogo si riscalda, un uomo può farsi coraggio (ma non tanto) e riferito a una bella donna della comitiva può recitare questo indovinello:

M’h’a scusari se t’u dicu,
a spaccazzedda è sutt’o viddicu.

     Scusate la mia sfacciataggine, Signore, ma la fessurina (di ciò che dovrete indovinare) è sotto l’ombelico. Chi è che ha la fessurina sotto l’ombelico? È il salvadanaio di terracotta, che ha una specie di bottoncino (l’ombelico?), sotto il quale, guarda un po’, c’è proprio una fessurina .
   
     Insomma, non si finisce mai di pensare male, sporca mente umana, anche quando si tratta di cosa semplici, elementari e soprattutto tali da non poter far pensare a nulla di osceno.

                                   Gino Carbonaro




[1] Bella Madre Immacolata (ti giuro) non è cosa sporca (malacreata).
[2] Sostanza, dice l’etimo, è ciò che sta sotto: sub-stare.
[3] Doppio (in inglese double) e dubbio, sono linguisticamente  collegati. Là dove c’è doppiezza c’è ambiguità.
[4] Così come il labirinto, anche nodo gordiano è, nei miti greci, uno dei tanti problemi che nella vita l’uomo è portato a risolvere. Se scioglie il problema, vince e ha salva la vita, se non lo risolve, muore. 
[5] In latino la maschera dell’attore teatrale è detta persona.
[6] Mistero (greco: μυστήριον) è ciò che si nasconde, che è segreto, doppio, ambiguo, “miste”.
[7]  Gli scherzi molto pesanti, a volte anche tragici, facevano parte del Carnevale ed erano “consentiti” solo durante il periodo del Carnevale. Se qualcuno dei malcapitati reagiva, veniva cantata in italiano la frase: “Carnevale, ogni scherzo vale, chi si offende è un gran maiale!”.