2012/02/21

Dionisiache Antenati del Carnevale



Antenati del Carnevale    

   Dionisiache




Quando la Terra, dopo il solstizio d’inverno,  

invertiva il suo corso e la Natura indicava con mille 

impercettibili segnali il suo risveglio, gli uomini, essi 

pure, si preparavano ad accogliere la sua rinascita,  a 

festeggiare/partecipare a quel tripudio di vita.





Rinasceva la Natura, ma per i Greci era Dioniso che riemergeva dagli Inferi dopo il lungo riposo-letargo invernale (o infernale?). E si preparavano ad accoglierlo.
Erano le Menadi, le donne seguaci di Dioniso, ad avvertire per prime l’imminente ritorno del Dio. Ed era, improvviso, un fuggire dalle case gridando, uno sciamare di donne che, come scalmanate si riversavano di corsa per le strade. Questo, il segnale che dava inizio al periodo di feste. Ed era clima di gioia selvaggia che si tramutava in una incontenibile, frenetica baraonda.

Era consuetudine, allora, imbrattarsi* il viso con feccia di vino, uccidere il caprone, mangiare tutti insieme, spillare vino nuovo dalle botti, e bere in abbondanza, per sciogliere gli affanni, perché questo era il dono che Dioniso concedeva agli umani: uno stato di ben-essere, una possibilità di godere un periodo di libertà assoluta. Per questo, gli schiavi ritornavano liberi, e nessuno poteva essere ridotto in catene durante il periodo sacro delle Dionisiache, e a tutti, anche alle donne era concesso vivere una dimensione di libertà* che sconoscevano durante il resto dell’anno. Per questo, si diceva che Dioniso era il dio delle donne*, il dio che comprendeva le loro pene e le liberava da esse. Un dio femminista, insomma.

Ma, il cuore della festa era rappresentato dal corteo. Davanti a tutti, il simulacro del dio ornato con foglie di edera*, posto su un carro preceduto da pantere* e trainato pe le vie della città da Priapo* e da uno stuolo di uomini mascherati e coperti di pelli di capra simboleggianti Sileni e Satiri. Tutti portavano in mano il tirso*, il bastone sacro, pur esso decorato con tralci di edera, e calzavano tutti grandi zoccoli di legno con i quali battevano forte e ritmicamente i piedi per terra provocando cupi rumori. L’incedere di questa avanguardia era solenne. Austero, perché sacro, era l’evento. Solo il capo del corteo, l’exarcon, gridava al cielo frasi sconnesse (così sembravano all’inizio) come dette da chi il vino avesse sconvolto i sensi. Ma era la voce dell’uomo che parlava al Dio, e furono interrogativi sicuramente drammatici, se è vero che in questo primissimo monologo, rinforzato da un coro, si ponevano e si pongono tuttora le origini della tragedia greca.

Questa la sacra avanguardia del corteo di Dioniso. Dietro il carro con il simulacro, seguivano le Menadi, le sacerdotesse del dio invasate, col viso imbrattato con feccia di vino, coperte con pelli di volpe o di cerbiatto, che andavano in seguito perdute.
In tutti, poi, c’era una precisa volontà di far baccano con ogni mezzo, battendo pietre, suonando timpani, tamburi, cembali, fischietti traci dal suono acutissimo, dimenandosi nel mentre come scalmanate, sull’onda dei rumori (ossessivi) quasi a volersi liberare da qualcosa che sentivano in loro e ne agevolavano la fuoruscita. Ed era percezione di purezza e di potere, se è vero che alla fine si sentivano liberate da male, anzi capaci addirittura di dominarlo. Per questo portavano in mano i segni tangibili di quel potere: serpenti* vivi, addomesticati, dai quali le Menadi si lasciavano avvolgere il corpo, le braccia, il collo, la testa. Forma di potere simboleggiato anche dalle fruste*, con le quali staffilavano l’aria, il suolo e quanti si imbattevano sul loro cammino. Potere del tirso, del bastone sacro, con il quale battevano forte il terreno, convinte com’erano che da questo sarebbero sgorgati rivoli di latte e miele, e zampilli di vino. Aspirazione e speranza di una abbondanza* che è forma di  ben-essere.

All’imbrunire, poi, tutti si fornivano di fiaccole, con le quali fugavano le tenebre e illuminavano la notte. Così procedeva il baccanale-dionisiaco per le vie della città. Così perveniva la terribile calca nello spazio antistante il tempio del dio, dove alla luce rossastra delle fiaccole si immolava  il (dio-)caprone o il (dio-)toro, e l’exarcon ne mimava il belato, il muggito, i movimenti, per acquisirne i poteri*, ed era forma di “mimesis”*, identificazione dell’uomo con l’animale-dio e forma di transfer.

Nasceva così, nell’exarcon che imitava Dio e si identificava con lui, la figura del sacerdote-vate (profeta e poeta) che parla per Lui, gli presta la voce, ne interpreta le visioni e svela agli uomini assetati di sapere, le sacre verità, il senso delle cose, le coordinate della vita.
Così, da suoni sconnessi, caprini e taurini, emergono lentamente frasi, senza senso dapprima, poi sempre più chiare e decifrabili. Sono Detti oracolari, Proverbi sapienziali, proposizioni-risposte che chiariscono enigmi, verità alle quali è tolta la maschera che le ricopriva. Monologo, dunque, all’inizio, quello dell’exarcon, dell’uomo-dio-caprone, ma dialogo in seguito, nel ditirambo, che fa seguire al dramma satiresco la tragedia, e in essa i non meno importanti interrogativi, sempre sul senso delle cose*, sul perché del dolore “perché tanto ne spetta all’uomo, anche senza ragione”. (Sofocle, Edipo Re, vv. 1565/67).  

Ora le Menadi invasate, coi capelli disciolti, quasi furie, si precipitavano in corse sfrenate verso la montagna sacra, alla ricerca di animali da uccidere e da sbranare vivi, per succhiarne il sangue che è vita, e mangiarne le carni crude. Ed era modo per incorporare il Dio, che era sentito come presente nelle carni dell’animale (cerbiatto, lepre, agnello). Appropriazione di vita in ingresso, dalla bocca, e in ingresso subito dopo dalla vagina, quando nel cuor della notte, lasse e nude, le Menadi-baccanti spossate dalle fatiche si abbandonavano al suolo, dove le raggiungeva la schiera dei Satiri barbuti, cornuti e cazzuti ai quali si concedevano per ricevere dentro di loro l’altra divinità: Priapo, il Fallo, Dio della vita.  Ed era la discesa e l’ingresso del Dio che allontanando i mali del mondo dona e produce la vita. Ed era orgia di piacere e di pace. La felicità totale.

Queste le Dionisie cittadine, festività per le quali ogni individuo (uomo, donna) tendeva a diventare protagonista dell’evento (sacro) che lo coinvolgeva emotivamente e fisicamente. Dioniso giungeva con la nuova stagione e penetrava nel corpo di ognuno, segnalato da un improvviso bisogno di contorcersi/dimenarsi, quasi un volersi scrollare di dosso qualcosa, e nello stesso tempo frenesia di mangiare, bere, dimenticare, copulare, godere per esorcizzare con il bene-piacere e l’abbondanza di cibo e di sesso, la sofferenza, il male, il dolore.

Falloforie

Se le Dionisie cittadine si concludevano nel dimenarsi di falli, le Dionisie rustiche o campagnole rappresentavano il trionfo dello stesso strumento che elevato a divinità si venerava nelle Falloforie. Il sillogismo è semplice. Se Dio è colui che dà la vita e il Fallo è generatore di vita, il Fallo è dio.

Alla ricerca di una fonte di bene e di vita, di piacere e di gioia, l’uomo greco si attaccava al sicuro, elevava al cielo lo strumento divino, procacciatore di felicità, e lo portava in processione per le campagne, e con esso gongolante, entrava nelle case, perché venisse accolto anche al loro interno, baluardo contro la jettatura, protettore delle mandrie, delle greggi, delle api, dei pesci, dei campi, degli orti, delle vigne. Il protettore-creatore-generatore della vita. Colui che reca gioia, allegria, ben-essere, conforto nelle notti insonni, e tiene lontano i mali del mondo.
Anche qui un procedere ordinato, all’inizio. Innanzi a tutti le canefore che portavano ceste colme di fichi (chiara analogia alla sessualità femminile). Seguiva il Falloforo, il portatore del Fallo divino, di Priapo (figlio di Dioniso e di Venere) eretto e maestoso, pro-teso verso il cielo. Appresso, la calca dei partecipanti. Corteo di popolo gaudente e mascherato, trans-ferito nel ruolo di tanto personaggio, che godeva degli scherzi e delle battute salaci rivolte al Dio dei piaceri e delle voluttà, al simbolo priapeo armato.

Baldoria, baccano, euforia e allegria caratterizzavano anche qui l’evento felice, il festeggiamento del simbolo massimo, di colui che giustamente è considerato il padre del genere umano, l’unico che a qualsiasi momento può offrire garanzia di ben-essere fisico e psicologico.

Se il Fallo è bene, Priapo è il pene. Non restava dunque che invocarlo, adorarlo e propiziarlo (da maschi e da femmine) tenendolo caro, per usarlo alla bisogna, oggetto apotropaico per eccellenza, spaventapasseri o guardia campestre dai vistosi attributi, come rimedio contro ogni genere di mali.

A sera, poi, quando la processione sacra aveva esaurito la funzione, assembramenti di gente e baldoria, conversazioni amene e piccanti, battute inneggianti al dio gioioso, scambi di bicchieri di vino. Ed era delizia dei sensi e universale letizia.
Questo, in Grecia. A ogni primavera.

Ma chi è Dioniso? 

La tradizione lo definisce dio del vino, dell’uva, della vite. In verità, Dioniso è realtà molto più complessa. Difficile da definire nella sua essenza. Mitologicamente è un emi-dio, in quanto partecipa della natura umana e di quella divina. Figlio di Giove, capo degli dei, e di Semele, una comune mortale, una vergine donna che avendo osato accogliere in sé il seme della somma divinità era stata punita dalle divinità olimpiche a vivere in eterno negli Inferi. Ma, era proprio in virtù di questa sua doppia natura “umana e divina”, che Dioniso poteva comprendere gli uomini, le loro pene, i loro bisogni, le loro richieste. Proprio per questa sua particolare natura, Dioniso era solito abitare per metà dell’anno  nel mondo delle tenebre, nell’Averno, accanto alla madre Semele, e per metà nel mondo della luce, nell’Olimpo, accanto agli altri Dei. Dioniso era, dunque, un dio che ciclicamente appare e scompare, dio che nella sua discesa agli Inferi lascia gli uomini nella solitudine e nella tristezza, ma ritornando porta la gioia dello stare insieme e il piacere di vivere. Pertanto, Dio della vita, che vince sulla morte, ma anche dio delle tenebre che vince sulla vita. Mitologicamente, Dioniso simboleggia la Natura.  La “Natura” che è vita e morte. La Natura che ad ogni primavera risorge, presente anche negli animali, soprattutto in quelli che non fuggono davanti all’uomo: pantera maculata*, orso, toro, cavallo, caprone, cinghiale. Animali che attaccando mettendo a rischio la sua vita.

Ma è qui che si verifica il paradosso. Se l’uomo riesce a uccidere l’animale-che-è-Dioniso, l’animale-che-è-vita, da quell’ammasso di proteine subito fagocitate/introiettate  all’interno dell’organismo umano, si confermerà (dolce fonte di ben-essere) la vita, perché l’animale-che-è-Dioniso è contemporaneamente fonte di possibile male (prima di essere ucciso) e fonte di sicuro bene come ammasso di proteine, dopo che è morto-ammazzato. Così, gli opposti coesistono in un solo punto: nell’attimo in cui l’animale morto alimenta un’altra vita.

Si realizza così, il ciclo della vita e il concetto della alternanza, l’idea della possibilità/necessità della inversione, del capovolgimento che sostiene la speranza umana nei momenti di sofferenza e di dolore. Per questo si dice che “il morir di una notte apre il nascere di un nuovo giorno”.

È Dioniso, dunque, colui che si pone alle radici dell’essere, che è per l’appunto sintesi di opposti, di vita e di morte. Contemporaneamente. Se Dioniso è la Natura, la Natura è sadica quando mostra gli artigli insanguinati, o quando ci sfiora con l’alito gelido della morte. Eppure, nella proteiforme varietà del suo essere, la Natura non manca di essere buona, dolce, bella. È per suo mezzo che l’uomo conosce la gioia di vivere, la coscienza grata dell’esistere, conosce l’amore meraviglioso dei sessi, l’idillio bucolico, il dono georgico della stessa, e ancora i piaceri dell’arte, della poesia, le dolcezze della musica. La Natura è indifferentemente, anzi, contemporaneamente, “doppia”*, perché  fonte di benessere e di malessere, amica e nemica, madre e matrigna, che ci crea e ci distrugge, che si lascia comandare eppure ci comanda, che dà piaceri a piene mani, e dolori allo stesso modo.  
   
                                                      Gino Carbonaro