2012/03/26

Artigiano o Arti-genio?


 C'era una volta l'artigiano 

                                                            di Gino Carbonaro

Chi visita il Castello di Donnafugata, qui negli Iblei, rimane stupito dalla bellezza di quanto vi si trova esposto: candelabri di cristallo, mobili d’arte, armature, strumenti musicali. E il pensiero corre alle dinastie nobiliari che hanno arredato quel fortilizio di campagna, senza contare che quanto si trova lì realizzato è risultato della genialità di anonimi artigiani.

Sono gli artigiani  che da sempre hanno custodito il patrimonio di scoperte fatte dall’uomo nel corso dei millenni; coloro che avevano capacità creativa e abilità per realizzarle.

Oggi, di questi arti-giani, o arti-geni, per scomodare le etimologie, si è perduta la memoria. Dimentichiamo che Leonardo da Vinci, genio assoluto dell’umanità,  si è formato in una bottega artigiana, quella di Andrea del Verrocchio, vera fucina di idee, dove si scolpivano e si fondevano statue, si realizzavano pale e quadri di altare. Lì, con la forza della mente e l’abilità delle mani si risolvevano tutti i problemi di una committenza esigente. Ma, artigiano era ancora Benvenuto Cellini, orafo e scultore, che fuse, con le sue mani e nella sua bottega, il Pérseo. E botteghe artigiane erano quelle dei ceramisti e vasai greci, dei decoratori di vasi che oggi sono vanto e patrimonio dell’umanità, fra le cose più belle che siano mai state realizzate dall’uomo.

Più vicini ai nostri tempi, il pensiero va al carro siciliano, struttura sulla quale riposa una millenaria esperienza artigianale; si pensi alla bellezza dei ferri battuti a mano, alle sculture, torniture, decorazioni, all’arte del mastro carradore.   
  
Oggi l’artigianato è scomparso. Di quella memoria sono rimasti i reperti, sorta di cadaveri che noi mummifichiamo nei musei. Difatti, l’anima di quel reperto è volata via; non c’è più, né può essere riportata in vita. Ma la società odierna dovrebbe riconoscere i meriti dell’artigiano, che dalla notte dei tempi ha rappresentato intelligenza e memoria dell’umanità. Si potrebbe pensare di dedicargli una statua, almeno, così come si è fatto per il milite ignoto, morto in battaglia per la gloria di generali e sovrani.

I Giapponesi hanno avvertito quello che stavano perdendo, hanno inventariato gli ultimi artigiani viventi, li hanno considerati beni dell’umanità, custodi della memoria collettiva che non può essere conservata nei libri o nei musei, e li hanno insigniti del titolo di Tesori viventi. Il loro compito è ora quello di lavorare per creare un ponte fra passato e futuro, per insegnare l’arte e i suoi segreti a degli apprendisti, che a loro volta la tramanderanno ad altri. Un passato che vive. Un debito di riconoscenza che quel popolo sente di avere nei confronti dell’artigiano.   

                                                             Gino Carbonaro


Il mulo Totò Storia di animali e di uomini


La storia del Mulu Totò 
e del suo padrone Tanuzzu, 
accaduta a Niscemi qualche anno fa, rappresenta un documento 
di archeologia culturale 
giunto sino a noi dalla notte dei tempi

                                                     di Gino Carbonaro 
 
     Nella Sicilia di qualche tempo fa, l’asino, il mulo rappresentavano la ricchezza di una famiglia.
     Da sempre, fedeli compagni dell’uomo, questi animali venivano adibiti nei lavori più pesanti ed ingrati: dai carrettieri per il trasporto di merci e derrate; dai contadini come animali da soma e per arare i campi; nei frantoi per girare le macine.
     Chi scrive, ricorda quando, decenni fa, al tramonto, i sagrati di alcune chiese si riempivano lentamente di carri che tornavano dalla campagna, e venivano sistemati gli uni accanto agli altri in bell’ordine, con le aste in aria, mentre gli animali venivano avviati nelle stalle, che solitamente si trovavano all’interno delle piccole case dei contadini.
     Sino a non molti decenni fa, stalla e camera da letto dei nostri contadini erano sotto lo stesso tetto, separati appena da una tenda o da un tramezzo di canne e gesso. Animali e uomini, gli uni accanto agli altri.
     Questa era la norma. Il modello, arcaico, risaliva alla notte dei tempi. Si pensi all’ovile di Polifemo descritto nella Odissea di Omero. La sera il gregge era accolto all’interno della grotta, al riparo da lupi e malintenzionati, guardato a vista dal legittimo proprietario. Lo stesso fanno tuttora i pastori sardi introducendo le pecore pregne o malate e gli agnellini all’interno del nuraghe, e lì passano insieme la notte.    
     Se Gesù, come si racconta, è nato in una mangiatoia, è  segno che per Giuseppe e Maria era naturale alloggiare in una grotta, accanto a questi preziosi amici dell’uomo.  
     In passato, gli animali che vivevano in paese erano numerosi: animali da lavoro, soprattutto, ma c’erano anche le mucche dei venditori di latte, le greggi che a notte, tornavano negli ovili di paese, qualche maiale con la sua figliolanza, e conigli posti dove c’era spazio, e galline, che di giorno sostavano nelle gabbie davanti le porte di casa, ma di notte venivano introdotte in casa; e ancora gli immancabili cani, gatti, topi e chi più ne ha più ne metta.
     La differenza fra ieri e oggi? Tanta e nessuna. Oggi, l’inquinamento è rappresentato dall’ossido di carbonio che rende l’aria irrespirabile e fortemente tossica; ieri l’inconveniente era rappresentato dalle tonnellate di escrementi, che gli animali disseminavano per le strade e che la gente povera raccoglieva per concimare gli orticelli. Un antico proverbio siciliano recitava: “L’acqua è oru. A merda è trisoru!” L’acqua è come l’oro, ma il letame  è tris-oro, vale cioè tre volte più dell’oro.
     Era ricchezza, insomma, non deodorata. Ma, nei tempi antichi, uomini, animali e cose venivano identificati dagli odori. Il fiore odorava da fiore, il mulo da mulo, gli uomini da uomini. Odori che cambiavano da persona a persona ed erano tanto più marcati in quanto l’acqua si attingeva alla fonte o nelle pubbliche fontane, e in casa non c’era acqua per uso igienico, né esistevano fognature. Nessuno aveva gabinetto e sciacquone, doccia e bagno per limitare le esalazioni personali; e, quanto era rifiutato dallo stomaco durante le ventiquattro ore, veniva raccolto da carri “strafitenti” addetti alla bisogna. Forme di civiltà primitiva, ed espressione di una fognatura mobile.
     Ed era odore di santità, quello dei monaci, e delle monache, soprattutto, cui era proibito toccare acqua e parti del corpo impure, proprio per un principio di castità. Il sapone, si diceva, era invenzione di Satana.
     E, se i paesi erano di necessità costituiti da una sommatoria di case-stalle, è chiaro che l’atmosfera all’interno dei nuclei abitati era pesante. 
     Dagli odori, che raggiungevano ad ogni piè sospinto le papille olfattive degli abitanti, si salvavano i ricchi che vivevano i piani nobili dei loro palazzi, e potevano usufruire delle brezze che visitavano le loro camere e provvedevano al ricambio dell’aria.
     Con l’arrivo dell’estate, però, esalazioni delle concimaie cittadine e mosche aumentavano in maniera esponenziale; per questo i benestanti si trasferivano in campagna, per respirare un po’ di “aria fina”, si diceva proprio così, per distinguerla dall’aria grassa di paese.
     Sono cose che fanno parte della nostra storia recente e che non vanno dimenticate.
  
Il mulo Totò e il suo padrone Tanuzzu   

      Il mulo Totò di Niscemi e il suo padrone Tanu (o Tanuzzu) protagonisti del poemetto di Tanino Preti, rappresentano un reperto di archeologia culturale giunto sino a noi dalla notte dei tempi.
     Tanuzzu, seguendo il modello paterno e quello trasmesso dalla tradizione, accoglie tuttora il mulo all’interno della sua casetta; d’altro canto la stalla è stata lì da sempre, a memoria d’uomo, così gliel’aveva lasciata il padre in eredità.
     Ma l’animale Totò, una volta fedele compagno di lavoro del vecchio ottantenne, ora è solo animale di compagnia, fratello di sofferenze del suo vecchio padrone. Ed è a lui, al suo amico animale, che Tanuzzu chiede conforto alla sua solitudine, ed è con lui che parla il linguaggio universale dell’amore. Idillio, che può essere ritenuto assurdo agli occhi di chi non ama gli animali, ma è evento che si registra ovunque una persona tiene in casa un animale verso cui rivolge le sue cure.

La civiltà e il tempo

     Ma, il tempo passa, tutto cambia (πάντα ρέι) e la civiltà avanza. Così, quell’anonimo abituro (quello dove vive Taninu col suo mulo) che ancora qualche decennio fa era situato appena fuori dell’abitato di Niscemi, viene raggiunto, prima, conglobato subito dopo dalla massa di conglomerato cementizio, figlio della ricchezza, del progresso e di una nuova logica del vivere.
     Quello che per millenni era stato un fatto naturale, la convivenza dell’uomo con l’animale, sotto lo stesso tetto, immediatamente diventa un avvenimento non più logico, non più accettabile.
      I nuovi vicini di casa di Tanuzzu, in buona sostanza le persone civili, non possono sopportare gli odori che esalano da quel tugurio immondo, dove le bestie convivono con gli animali, e denunziano il responsabile alle Autorità Sanitarie, che, accertati i fatti, multano il colpevole.
     Motivazione. Il mulo puzza e la puzza al naso disturba i vicini di casa.
     Il Sindaco di Niscemi, fatto partecipe della delicata questione, decreta che il Mulu Totò potrà svernare (’ntà mmirnata) nella sua stalla, accanto al suo padrone, ma transumerà in campagna, e alloggerà fuori dell’abitato, nei sei mesi estivi (’nta staçiuni), non appena i terreni schiumano le prime erbe e arrivano i primi calori.
     Ed è sentenza salomonica, che discende da un diritto che Tanuzzu ha acquisito per usu capione, tenuto conto che non è stato lui ad andare verso il paese civile, ma il progresso a farsi suo vicino di casa.
    Scontro di civiltà, dunque, fra passato e presente, fra persone per bene che pensano molto bene al loro bene, e un uomo povero, indifeso, e inascoltato nelle sue umane ragioni.

    Tanuzzu da Niscemi, defensor bestiae, convinto della sua innocenza, disorientato, non riesce a capire perché l’umanità niscemese si ostina a rendere il suo mulo orfano del suo padre e amico, colpendo entrambi di un dolore che non è proporzionato al danno che essi possono arrecare ai loro vicini di casa; né riesce a capire perché le amministrazioni cercano di fare un problema di un falso problema, distogliendo l’attenzione dai veri problemi.

Un monumento al Mulu Totò 
(e al suo padrone)

     A questo punto, l’imprevisto. Una parte della cittadinanza si ribella al decreto del Sindaco, e si attiva per far costruire un monumento al mulu Totò e al suo compagno; perché è giusto tramandare ai posteri una pagina della nostra storia passata: riconoscimento al Mulo e indirettamente a tutti gli animali da soma, che hanno aiutato l’uomo nella strada del progresso, anche se alla fine sono stati costretti ad abbandonarlo davanti alla porta che lascia entrare solo le bestie, ma non gli animali.
     In parole povere, è come se in Egitto qualcuno avesse deciso di elevare un monumento alla memoria non solo del Faraone, ma anche a quelle migliaia di schiavi che hanno costruito materialmente le piramidi: il merito è anche loro. Così per gli animali.
     E la casa con stalla di Tanuzzu? È anch’essa un reperto di antropologia culturale che va salvato dalle insidie dei folli e conservato come parte del nostro passato, che tutti vorremmo dimenticare e di cui nessuno cerca di parlare.
     Ci auguriamo che tanto venga fatto.

Gli ultimi cantastorie

     Tanino Preti, musicanti bonu, ma soprattutto uomo di vera cultura e ultimo dei cantastorie, sensibile e baciato dalla musa della poesia, sente lo stridore di questo mondo che ritiene di conoscere la verità e di gestire la giustizia, mentre costruisce attorno all’uomo un inestricabile labirinto di leggi, dalle quali pochi riescono a districarsi.
     E canta, non la storia di un mulo, come dice il titolo, ma la storia eterna di una umanità che spesso perde di vista le coordinate della vita e la luce della Stella Polare.
     In questo poemetto di 55 strofe, che segue lo schema della canzuna siciliana, Tanino Preti racconta a se stesso e agli altri, quanto è accaduto a Niscemi, rivolgendosi a qualcuno disposto ad ascoltarlo, e che gli possa spiegare perché non si devono amare gli animali? E, quale male può aver fatto un uomo, che ha scelto come compagno della sua vecchiaia un mulo? Rilevando che Gesù amava gli uccellini dei campi, S. Francesco ammansiva i lupi, e tutti sappiamo che la natura è creatura di Dio e pertanto bisogna proteggerla e preservarla.
     E allora? – si chiede Tanino Preti - perché c’è gente che provoca incendi e incenerisce i boschi, perché ci sono persone che praticando la caccia terrorizzano e uccidono creature di Dio? 
     Anche lui, Tanino Preti, come il protagonista della sua storia, non capisce il mondo in cui vive, e si ostina a convivere con i suoi valori, con i convincimenti, quelli che tengono conto, che gli animali sono nostri fratelli e vanno amati e curati, se necessario. E se un uomo aiuta un animale che ha bisogno, è segno che lui è la mano di Dio.
     Questo canta l’ultimo dei cantastorie, quasi vox clamans in deserto, ora che la civiltà ha capovolto la gerarchia dei valori sociali.


Il mulu Totò e la Baronessa di Carini    

     In buona sostanza, il principio colto da Tanino Preti è lo stesso che gli antichi cantastorie rilevarono nella baronessa di Carini. In quel tempo, la cultura vigente condannava a morte la donna, che aveva tradito il marito. Poco importava che si trattasse di un uomo storpio, gobbo, vecchio e cattivo, e che avesse preso in moglie una donna giovane e bella, che non aveva scelto di sposarlo.
     La legge del più forte, che allora era quella del maschio, giustificava la morte cruenta della baronessa di Carini per mano del proprio stesso padre. 
    Il cantastorie di una volta, aveva sentito l’assurdo in ciò che la cultura dell’epoca giustificava, e denunzia il fatto davanti a un nuovo tribunale, quello del popolo, offrendo a tutti una nuova versione dei fatti; quella che reclamerà i diritti dell’amore, e renderà eroina colei che la legge e la giustizia avevano condannata.  
     Così per il mulo Totò e per Tanuzzu, la legge moderna segna con il bisturi i confini fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, fra chi ha ragione e chi ha torto. Tutto può sembrare logico e giusto, ma il nostro cantastorie non accetta la versione ufficiale dei fatti e passa all’opposizione, denunziando alla società le incongruenze di quella sentenza e le assurdità di questo mondo.

Cuntu e cantu

     Un antico modo di dire siciliano recitava: “Nun cantu e nun cuntu”, per significare che una persona non aveva voce in capitolo, che non valeva niente. Al contrario, era molto importante, per tutti, colui che nei tempi antichi cuntava e cantava,  cioè, il Cantastorie, una sorta di cantautore che componeva, cantava, recitava passi di storia minore.
     Come gli antichi aedi di greca memoria, il cantastorie rappresentava l’anima popolare, colui che custodiva e consegnava ai posteri l’épos di un popolo.
     Chi scrive ricorda ancora Ciccio Busacca, Turiddu Bella, personaggi passati oggi alla storia delle tradizioni siciliane. Arrivavano di domenica mattina sulla piazza più importante del paese, montavano il palchetto, molto spesso utilizzando il portabagagli della loro Seicento; esponevano  il telone con i riquadri sul quale era dipinta la storia che avrebbero dovuto raccontare e cominciavano ad arringare la folla accompagnando il canto, crudo ma bellissimo, con la chitarra.
     Erano loro, i cantastorie siciliani, che portavano nei paesi, l’eco dei grandi personaggi e degli eventi che il mito aveva consegnato alla storia.
     Ma, cuntu e cantu nascevano insieme. Difatti, cuntu è la parola-che-è-concetto “sonoro”, nel senso che si veicola nell’aria per giungere alle orecchie dell’ascoltatore;  il canto utilizza anch’esso il suono che è modulato in melopea: dunque suono-concetto, il primo, suono-melodia il secondo.     
      Tanino Preti, poeta per elezione, musicista per nascita, intellettuale onesto, che conosce la poesia  del grande poeta niscemese, Mario Gori, coglie al volo un evento misinterpretato della nostra tradizione: la storia di Tanuzzu  e del suo mulo, e ne fa una storia cantata, che si fa subito poesia. Storia, si è detto, che parte dalla realtà del fatto, ma si trasforma subito in evento metastorico che diventa favola e si fa mito; delicatezza di un racconto che trasporta il vissuto in una atmosfera surreale. Certamente, ci sono in essa forti pennellate di costume, vedi il carrettu cu la vutti prontu a ’nsaccari sicchia strafitenti, ma si tratta di eventi che il nostro cantastorie recupera dalla memoria e che la stessa dissolve.     
                                                    Gino Carbonaro