2012/05/09

L'antipoesia di Angela Bonanno


Graffiti di parole 
da "Nuatri" (2oo3) e 
"Setti viti comu i jatti" (2005)

                                                                di Gino Carbonaro

Non ho mai incontrato donne
come Angela Bonanno che colgono aspetti 
della realtà così come fa lei. 
Questa è poesia che  non ha modelli. 
Noi  possiamo leggere Leopardi, 
e nella forma potremmo sentire 
la presenza di  Tasso. 
Possiamo leggere Foscolo, e dentro potremmo 
sentire la eco di Pindemonte, Ennio, Lucrezio. 
Leggiamo le  poesie di Angela Bonanno 
e dietro c'è solo lei  
con il suo modo di vedere il mondo, 
con i suoi valori, interessi, eventi, frammenti di vita, ed essere senza compromessi se stessa.      

T'ammazzu!
Mi fazzu i scali 
a quattru a quattru
mi stramazzu de scali
da me vita
ti 'nficcu du ita
intra all'occhi
cc'i fazzu mangiare e cani
t'annorbu ppi disprezzu
di la vista
ti cucinu 'n-pranzu cu li nocchi
di tuttu u ma vilenu. 

Nuatri p. 16

In queste poesie c'è lei e la sua vita. Ed è su questo che mi viene da riflettere. Su quella che è la forza del suo pensiero poetico: un misto di filosofia dell’esistenza, psicologia al femminile,  lingua, poderosa, vichiana, incisiva, in sé creativa, in un impasto unitario che enuclea poesia. E mi chiedo. Da dove discende tanto coraggio, energia, tenacia, originalità, tanta caparbia certezza che il suo lavoro è poesia vera?

Si jetta u vugghiu
s'appannunu i vitri
mi spinnu i manu
e mi cunfunnu.
Ccia ava ccalari a pasta
e cci calai i pinseri.

Nuatri, p. 13

Mi ha messo in crisi. Perché ho dovuto confessare a me stesso che dentro di me c’è un velo, una ruggine micronizzata, un tarlo che macchia la mia personalità. Malgrado io abbia scritto un libro sulla donna, resto impreparato nel dover accettare che Angela Bonanno,  donna, abbia potuto dare una lezione al mondo delle accademie letterarie, ai "Poeti" con la “p” maiuscola; e senza che nessuno gliel'abbia mai insegnato, riuscire a intercettare la strada per trovare se stessa, per essere visceralmente, univocamente se stessa, per dare uno sbocco alla sua rabbia, sublimare le sue amarezze, il suo bisogno di giustizia, di amore, di conforto, di comunione con un essere con cui dividere se stessa, i suoi pensieri, la sua vita, i suoi affetti.

*
U cani de vicini
pari ca mi piccìa.
E dataccilla na badda di vilenu
Vulissi nesciri
ma nun pozzu guidari
Nun sugnu orba ppi ffinta
nun ci viru davveru
A llurdia a toccu
e m'addannu a cuscienza
Cchi cazzu a ffari
senza 'n-cazzu di fari
scrivu e nun talìu
Ti vogghiu quannu l'aiu a cupiari
M'ancu n'amicu cani ca mi cerca
e.. l'unicu cani veru
iù u vulissi ammazzari

Setti viti comu i jatti, p. 46


Ed è il tema dell’essere e del non essere con gli altri e per gli altri, il profondo tema del “partire” che nell’etimo significa dividere, spaccare, lacerare corpo e animo. La stazione, il treno che parte (parte? divide? separa) e le amarezze di tutti i giorni, l’anoressia, il non volersi adattare a vivere in questo modo, in questo mondo, il non poter cambiare la società, il dover accettare la realtà, l’umanità, gli uomini, così come sono; il dover accettare la condizione di donna cui solo pochissimi riconoscono dignità, sensibilità, intelligenza, personalità, diritto di essere donna.

*
Su' nisciuti me figghia e me niputi
A sira è  'n-lampadariu
ccu du' lampadini svitati

Setti viti comu i jatti, p. 62
Così, si scopre che per leggere queste poesie si è costretti a stare in difesa, per proteggere psiche, mente, budella, perché queste non sono poesie che lasciano il sapore di caramella in bocca, poesie che confortano l’anima, che riscaldano a bagnomaria il termostato del nostro corpo. Questa è poesia che entra dentro, che taglia, scompiglia, violenta, graffia, brucia. Queste poesie, questi versi (ma dove sono i versi?) sono sciabolate di parole, che evocano spesso bisturi e coltelli affilati, taglienti; sono unghiate di gatti che costringono il lettore a proteggersi. 

*
Iù non scrivu a tempu pessu
u tempu ppi scriviri
m'u scippu do' rriloggiu
U tempu ppi scriviri
iù u pavu
Non manciu
non stiru
e a televisioni avri tri gghiorna
ca n'addumu
e certi voti non mi lavu
piccì u tempu ca peddu
mi sciddica d'incoddu cc'u sapuni.

u tempu ppi scriviri
m'u ppuntu che spinnuli 'nte manu.

Nuatri, p. 22

Poesie che sono frattali, frammenti, “fragmenta”, che richiamano lesioni, ferite, sangue di un corpo, poesie che attaccano i contenitori umani che custodiscono in bella mostra pensieri sazi di bene, ipocrisie, bisogno di star bene, e ti costringono a riconsiderare il tutto, a rivedere il tutto nella sua essenzialità scheletrica, essenziale, sotto un’altra ottica e un’altra gerarchia di valori. Angela scava nella psiche, mentre si denuda senza falsi pudori, per dire quali sono i sentimenti di una donna, per mostrare su quali bolla di vita ci troviamo a galleggiare, a navigare.

*
Anorissia
dici u dutturi
putissi esseri o addivintari
Sei chila na mancu un misi
e u frigorifiru è chinu
ciauru, culuri
a panza no nni cerca.
E' na cosa ca prima nchiumma
e appoi spurtusa
astruppìa.
Accussì rumpu buttigghi
spaccu biccheri e
cuntu i vitra ccu i peri scausi
ppi sentiri nautru duluri.

Nuatri, p. 22

Si tratta di poesie? fotografie? documenti? che fissano con parole usate come graffiti un evento, un transito di emozioni, una percezione, una angoscia, una illusione, una delusione, un affetto tradito, un inganno, un forma larvata di odio, un bisogno di vendetta, una imprecazione, un dolore.

Non mi piace usare i termini desanctisiani di contenuto e forma, ma va detto che la lingua che Angela adopera per colloquiare con se stessa, per incidere come in una roccia i suoi principi, i suoi comandamenti, le sue leggi, è unica. Fa  parte della sua persona, del suo vissuto, della sua identità.

*
u pinseri è fissu
Futtiri a morti
futtennumi d'amuri

Setti viti comu i jatti, p. 39

Questi suoi libri sono in realtà un diario. Ogni poesia è un tassello che completa il mosaico, la sua piccola, grande Cappella Sistina dove si fissa il magma del suo vulcano sopito, la sua protesta, contestazione gridata nel vuoto, dall’alto del suo balcone di casa, a un mondo assordato da rumori, attento ai suoi interessi, egoismi che non consentono di avere tempo per i problemi degli altri, per ascoltare gli altri. Tutto questo, mentre le stelle stanno a guardare.  

Sciùscia sutta a vesti
tocchimi
spezzimi comu u pani
fammi sentiri cchi ciauru fa
S'u voi
fazzu finta di nenti
giru a testa ddabbanna
fazzu finta di durmiri
Sciuscia cca
sutta a vesti
ppi 'n attimu sulamenti
ca mai è ppi sempri

Setti viti comu i jatti, p. 40


Il bello della sua poesia è ancora nel linguaggio, stupendo, nell’uso della lingua catanese, decisa e precisa, viva e incisiva, creativa e di per sé poetica, lingua siciliana che sgorga fresca, natura come zampillo di una sorgente di montagna. Ed è con questa che lei offre da bere i suoi pensieri al mondo dei colletti bianchi e della borghesia ben vestita e ben abbottonata. Lingua e parole che rappresentano il suo primo amore, le sue certezze, quelle che confermano la sua identità, evitando le ambiguità di una lingua veicolare, quella italiana, asservita ad una società conformizzata, che ha perduto valori e coordinate dell’esistere.
 
*
Sugnu mmiriusa
macari di na musca
Fazzu a spacchiusa
e talìu a tutti cc'a nasca 
a vaddila      sta pianta
cchi si fici bedda
Minchia   ma oggi ti furria mali
forfici zappuni e gguanti
u fazzu n'o fazzu
Su vogghiu pozzu
Ma  forsi
ti dugnu a bbiviri
oggi mi sentu diu
oggi cumannu iu

Setti viti comu i jatti, p. 50

Nasce da qui la anti-poesia di Angela Bonanno. Una poesia forte, unica nel suo genere,  poesia che ferisce - abbiamo detto - fa male, lacera lo spirito del lettore; poesia che è una sorta di “graffito” di parole che dicono cose che forse non vorremmo sentire, poesia che potremmo considerare alla stregua di una “rag poetry”, fatta di frammenti, segmenti di parole, tasselli (anche se non sempre), straccetti qualche volta maleodoranti: sorta di pensiero debole, bouquet di parole che prendono le distanze dal conforme, dal consueto, dal trito e dal ri-sentito. 

Queste, le mie impressioni, anche se è possibile approfonditi altri temi centrali della sua opera: il tema della esistenza, della solitudine “ontologica” di ogni essere vivente.

Sono felice di aver letto queste poesie non proposte dalla gigantesca industria dell’editoria.

Qui in campagna, dove il destino ci ha suggerito di vivere,  godiamo dei fiori di campo, iris e ciclamini, crochi e margherite, fiori che nascono e vivono la loro vita senza essere notati.

La sua poesia? È alla stregua di quei fiori di campo, un dono che Angela fa agli amici, un diario della sua anima con il quale comunica la genuinità del suo carattere, l’intelligenza del suo essere donna, la sua capacità di fare poesia.

                                               Gino Carbonaro

Da   "Nuatri" (2oo3) e "Setti viti comu i jatti" (2005) Edizioni Prova d'Autore

Ragusa, 22 dicembre 2007