2015/08/25

La grande Guerra diario di Emanuele Di stefano



L’ALTRA FACCIA DELLA STORIA



saggio introduttivo 
al diario di 

Emanuele Di Stefano
Ricordi dalla Grande Guerra

di Gino Carbonaro




     Prima di leggere questo diario di guerra di Emanuele Di Stefano bisogna rimuovere dalla mente  il luogo comune che si considera degna di essere letta solo la storia scritta da storici di professione.

In questa “Storia”, che è considerata con la “S” maiuscola, la garanzia di verità sarebbe data dai verbali ufficiali depositati negli archivi di Stato. Storia ufficiale, dunque, solitamente sterilizzata e ripulita di ogni fatto che possa recare danno all’immagine dei governanti di turno.

Ma è storia fredda oltre che falsa. Gli storici  che di solito non hanno partecipato agli eventi,  e che ritengono di giudicare all’insegna della obiettività, non riescono quasi mai a dissimilare il loro interesse di parte, ora per il vincitore ora per il vinto. Eppure sono questi i notai della storia, autorizzati a registrare le memorie ufficiali, in genere memorie lecite coperte di belletto, come le fotografie di matrimonio da far vedere in seguito agli altri, ai figli e nipoti, e che fissano per sempre momenti unici e diversi.

Ma, da quando è stata scoperta la scrittura, è stata questa la Storia di cui si è servito il potere dominante per far conoscere agli altri il proprio punto di vista e consegnare ai posteri le sue verità.

Uno storico del passato ricordava che le piramidi d’Egitto sono state costruite da centinaio di migliaia di uomini resi schiavi, che morivano a grappoli in bagni di sangue, sotto i colpi della frusta e della malnutrizione. A rigor di logica, la gloria avrebbe dovuto essere anche di loro. Ma nessuno ha trovato mai il tempo far valere i loro diritti, di scrivere una storia dal loro punto di vista.  

Ed è proprio questo il limite delle “macrostorie”. Chi guarda una foresta dalla cima di una montagna, osserva il panorama che dice della bellezza della natura, della grandezza degli eventi, ma non entra all’interno delle cose, non dice delle lotte che si combattono all’interno della foresta; perché la vita che si vive nella giungla è fatta ance di miserie che fanno storia, ma di cui spesso si evita di parlare.

Questa  storia “globale” non verbalizza angosce e patimenti di chi in guerra rischia la vita e vive nel terrore continuo di poter morire, e non sa, ad ogni giorno  che spunta, se quello sarà l’ultimo. Per la storia di archivio sono importanti solo il dato e la statistica: quanti morti, quanti feriti, chi ha vinto, chi ha perso, come è stata modificata la carta geografica. Il resto non fa testo e perciò non viene tenuto in alcuna considerazione.

E’ cosi che lentamente, in ognuno di noi si ingenera la falsa opinione che una historia  minor scritta da un milite  ignoto,  debba essere di scarso o di poco interesse. Invece non è così.
                                        

                                                                In attesa di ordini nella trincea

Il diario di guerra scritto da Emanuele Di Stefano è una piccola miniera di informazioni che stimola la curiosità del lettore, e che comunque documenta notizie che la storia ufficiale ignora. Il punto di vista dell’osservatore non è la cima, l’alto che domina, ma il basso che si insinua e registra   cose minime, relative alla estenuante vita del soldato per il quale si impongono solo doveri, ma al quale non è dato  reclamare diritti: soldato che di giorno lavora come una bestia, e di notte è sottoposto ad estenuanti turni di vigilanza, a corvées improbe e prolungate, che “fiaccavano il fisico e l’animo più dei pericoli della guerra”. E mette a verbale il comportamento di un tenente “che si lasciava guidare sempre da istinti belluini e sferzava indiscriminatamente i soldati “ e “in un momento d’ira ne accecava uno”.

E ancora sono messi in risalto i soprusi e le angherie che “erano diventati la nota caratteristica del 26°”, e il sadismo perpetrato a danno degli inferiori da parte dei superiori, che si sviluppava in una lotta interna, fratricida, “belluinamente crudele”, che esasperava gli animi a tal punto da “costringere un ufficiale disperato a porre fine ai suoi giorni con un colpo di pistola”.

Noi concordiamo con l’autore che ogni guerra impone le sue vittime e che gli uomini dovrebbero lasciarsi guidare dalla ragione, ma facciamo fatica a credere che sul fronte di guerra un generale che non crede alle giustificazioni   di un ufficiale, possa ordinarne la fucilazione sul campo.

La descrizione della esecuzione di un disertore è splendida nella sua essenzialità: “Fu trascinato a fondo valle dov’era scavata una fossa. L’eco della fucileria rintronò cupamente nella valle. L’infelice folgorato si accasciò al suolo. Tra i soldati serpeggiò un fremito”. Telegrafico come un dispaccio di guerra, il diario registra tutto, ma sconosce la denunzia, rilevando tuttavia dal basso, da un punto di vista diverso da quello ufficiale, errori dello Stato maggiore ed orrori della guerra.

Miserie umane, ma anche fede incondizionata dello scrittore nella legittimità di una guerra combattuta per il riscatto dell’unità azionale: nobiltà d’animo di un giovane che crede nei valori, e parla di “ubbidienza, senso del dovere, lealtà, generosità, abnegazione, coraggio, onore, spirito di sacrificio, gloria”, e “della necessità di non dover deludere le aspettative della nazione” e di non infangare il buon nome della famiglia macchiandosi di reati infamanti. Altri tempi. Altri uomini. Altra cultura.

Ma nel diario c’è altro, anche note di costumi: ad esempio il riferimento alla sconcia consuetudine di un sottotenente che durante i pasti “si frugava sotto le ascelle e schiacciava sul tovagliolo i pidocchi che riusciva a catturare”. 

Ed è ancora descritta la baracca-dormitorio, che di notte assumeva l’aspetto di un “covo di animali”: “i soldati che giacevano nelle posizioni più sconvenienti emanavano un fetore che dava le vertigini… quelli che stavano sulle cuccette superiori si agitavano continuamente e lasciavano cadere su quelli che stavano di sotto fango e pidocchi… L’aria appestata da odori nauseanti era irrespirabile”.

E non mancano neppure le note umoristiche, come la descrizione di un incidente accaduto ad un inesperto ufficiale: al ritorno da un servizio di pattuglia, preso dal panico a causa di un presunto attacco nemico, grida ai suoi soldati: “Si salvi chi può!”, e nella fretta di mettersi in salvo, scivola in una latrina del reparto ed è costretto nel cuore della notte a farsi un bagno nell’acqua gelida del fiume Iudrio.

Dunque, cronaca imbevuta di storia, raccontata con una prosa chiara, essenziale, immediata, come quella di un inviato speciale sul fronte di guerra.
                                    

Documento, ma anche bellezza di una prosa funzionale, aderente ai fatti narrati, assolutamente  priva di narcisismo, sconosciuta al dannunzianesimo di moda. Prosa che pure riesce a ritagliarsi qualche spazio di poesia. Il racconto è difatti rallentato di continuo da brevissime considerazioni sul tempo atmosferico e sulle bellezze della natura, che in questo diario diventa la grande madre di tutti gli esseri viventi. Lo scrittore annota che “nel risveglio primaverile tutto era bello. Le gemme dei faggi assumevano toni cangianti di verde, l’erba dei prati splendeva di riflessi opalini, i fiori di biancospino profumavano l’aria del mattino. Bella e affascinante ritornava la vita”. E ancora: “Riprese a piovere con la violenza di un uragano. Gli avvallamenti e i contrafforti nereggiavano di pini, di faggi, di castagni”. Descrizioni funzionali al racconto che certamente non sono frutto di letture accademiche.

Questo ed altre cose dice il diario di Emanuele Di Stefano, che ci riporta indietro di ottant’anni,  facendoci sentire l’eco di un tempo e di un mondo che non c’è più. La descrizione agile ed essenziale, propria della produzione diaristica,  invita alla lettura, avvince  e coinvolge. Il racconto sa di disegno, guache, fotografia, e sposa la storia alla letteratura, il documento all’arte, il costume alla psicologia. Se la guerra è un catalizzatore dei sentimenti umani, è qui nella guerra che affiorano altruismo e generosità, debolezze e ingiustizie, sadismo e miserie umane.

Fra memoria che è labile e tempo che travolge ogni cosa, il diario cattura l’attimo fuggente per consegnarlo alla storia. Ma la forza di questo diario sta soprattutto nella rivendicazione di un diritto: quello di affermare un punto di vista diverso, all’insegna della verità e della onestà morale e intellettuale.

Certamente, qualcuno potrebbe riaprire l’annosa questione che pone la differenza fra cronaca e storia, e che vede il diario come sfogo dell’anima, mezzo di conforto e di comunione con cui lo scrittore parla a se stesso, momento necessario per comprendere meglio gli eventi e dimostrare che esistono altre verità, altri punti di vista diversi da quelli ufficiali. Ed è vero. Al diario che principio è segreto, si affidano sfoghi dell’animo, considerazioni su i dubbi, sul senso della vita, sul perché delle cose. Il diario potrebbe non essere obiettivo, ma è certamente vero.

Onestamente, non serve catalogarne le funzioni. Serve solo stabilire se vale la pena di leggerlo. Per me, vale.

Gino Carbonaro

2015/08/24

Formiche in casa - Difesa



Come difendersi dalle Formiche 




La formica
non sopporta il

BOROTALCO







Provare per credere: non costa niente! 
Fra l'altro si tratta di prodotto ecologico!




2015/08/11

VALZER breve storia

Il valzer  
di Gino Carbonaro


Valzer

     Il valzer è una composizione in tempo ¾ o tempo ternario. Come ballo, il valzer fa la sua apparizione in Austria nella seconda metà del Settecento. E’ all’inizio un ballo popolare, gioioso, alternativo, che la musica colta fa suo, diventando già a partire dai primi dell’Ottocento, il ballo per eccellenza della nobiltà del tempo.

     Da Vienna, il valzer si diffonde in tutte le corti europee, dalla Francia (dove venne introdotto dalla regina Maria Antonietta d’Austria) alla Russia, all'Inghilterra, ma anche in Italia.

     Il successo del valzer fu dovuto a vari motivi. Alla bellezza estetica della danza, alla finezza, leggerezza, sensualità dei movimenti compositivi, che privilegia "le tour à la gauche”, e ancora alla orecchiabilità del tema musicale. Comunque, si trattava di principi che rispondevano agli ideali delle corti del tempo, ma soprattutto al fatto che per la prima volta ai ballerini (potenza della moda) era consentito ballare abbracciati.

                                     

     Ma, il valzer si affermò ancora grazie al contributo di una dinastia di compositori, soprattutto degli Strauss, definiti tuttora i “Re dei valzer” per la enorme quantità di composizioni che riuscirono a consegnare alla storia.

     Dal momento in cui nasce, i valzer entreranno di diritto anche all’interno della produzione operistica dell’Ottocento. Ricordiamo il Brindisi “Libiam nei lieti calici” nel Rigoletto di Verdi; “La donna è mobile” sempre nel Rigoletto di Giuseppe Verdi; il “Valzer” dal Balletto “Il Lago dei Cigni” di  Pëtr Il'ič Čajkovskij. E possiamo ancora ricordare decine di compositori, da Haydn a Beethoven, da Puccini (Vissi d’Arte, dall’opera “La Tosca”), a Franz Lear famoso compositore del “Valzer delle Sirene” da “La vedova allegra”, al valzer “Sulle onde del Danubio” di Iosip Ivanovich, che fu scelto per la inaugurazione della Esposizione Universale di Parigi del 1889. Lo stesso anno in cui fu inaugurata la Torre di Eiffel.     

*   *   *

     Col tempo, però, sempre in Europa, ma soprattutto in Francia, il valzer diventò definitivamente ballo popolare, interpretato da un antico strumento a fiato chiamato “Musette”. Sulla base del valzer musette, esiste tuttora in Francia una ampia letteratura musicale.  Ma, va detto che quasi tutti i grandi successi francesi da “Sous le ciel de Paris”,  “A’ Paris”, a “La vie en rose” di Edith Piaf e Leuiguy, sono composizioni a tempo di valzer.

*   *   *

     Ricordiamo ancora che molte delle classiche canzoni napoletane, da Regginella a Signorinella, da Marì Marì a “Parlami d’amore Mariu” e ancora tutte le ninne nanne che le mamme cantano ai bambini per farli addormentare sono in tempo 6/8 (equivalente del ¾ del valzer) che simula il movimento ondeggiante e sensuale del mare.

                                                      

Un Programma
in tempo 3/4  

  Valzer viennese
   1. Sulle onde del Danubio                                di  Josip Iaconovich      
2. Le Sirene del ballo (da “la vedova allegra)     di Franz Lear
3. Brindisi “Libiam nei lieti calici” (Traviata)      di  G. Verdi  
4. La Donna è mobile (Rigoletto)                         di G. Verdi
*
Romanze
  5.  Mattinata                                                        di   R. Leoncavallo
6.  Tu che m’hai rubato il cor (Paese dei sorrisi, 1926)
                                                                             di Franz Lear
                                                   *  
    Cantabili in valzer
7. Romagna mia                                                   di     Anonimo  
8. Non ti scordar di me                                         di E. De Curtis
9. Dominò  (Valzer Musette)                                di     G. Ferrari
*
    La valse” francese
10.   Sous le ciel de Paris                            
11.   A’ Paris  (1948)                                            di  F. Lemarque
10.  La vie en rose   (1946)                                   di Piaf- Louiguy        
                                           *

Napoli in tempo ¾
11. Regginella
12. Signorinella                                                     di N. Valente
13. Parlami d’amore Mariù                                    di  G.A. Bixio
14. Come pioveva                                                 


                                                                             Gino Carbonaro















2015/08/05

Rusina, Rosa la mia vita, intervista a Gino Carbonaro



RUSINA
La mia vita

Rusina Agolino




a Kamarina
21 luglio 2015
ore 20,30


                 


Apre il dr. Giovanni Distefano direttore del Museo Archeologico di Kamarina


Dr Distefano: Gino Carbonaro ha curato la prefazione del libro della signora Rosa Agolino, a lui poniamo alcune  domande. 

Di cosa tratta il libro?

Il libro “Rosa, la mia vita” è un “memoriale”, cioè libro di ricordi, una testimonianza di ciò che è stata la vita di questa donna, che nel suo ultimo filetto di Luna (a quasi novant’anni) riesce a realizzare un sogno che teneva nel cassetto, quello di raccontare alcuni eventi della sua vita, per consegnare a figli e nipoti (e ora anche a tutti noi) un documento scritto di suo pugno, nel suo dialetto, che è quello di Scicli.

..Insomma, si tratta di una biografia..?

Biografia? Proprio così. La signora Rosa, racconta la sua vita e ci fa sapere che alla nascita, era molto brutta, con la pelle scura come quella di una négara (negra), al punto che sua madre non voleva farla vedere a coloro che venivano per farle visita.  Subito dopo racconta della culla , a naca a bbientu”, che allora si costruiva sopra il letto matrimoniale sostenuta da due corde, E sua nonna e sua madre  ne costruirono una e  la montarono per lei accanto alla “tannura” per riscaldare la bambina che era nata a  fine gennaio del 1927, quindi in pieno inverno.
Passa poi a raccontare eventi della sua infanzia, e siamo al suo primo giorno di scuola quando accompagnata dalla madre si presenta alla maestra, che non la fa entrare in classe perché…? Perché è senza scarpe, scalza dunque, e senza grembiule, e con il vestitino rattoppato. Ma, ecco cosa scrive la nostra Rusina:

“Ma matri mi purtau a scola scausa e cu na vistinedda tutta aripizzata, però pulita. Appena mi vitta a maestra, ci rissa: “ Figghia mia, raccussi nun ma puozzu accittari. Scausa! Almenu ci vuogghiu i causetti”.

Indecorosa povertà che la Maestra vorrebbe esorcizzare invitando la madre (e la bambina) a tornare il giorno dopo. Ché almeno venga con un paio di calze! L’evento fa riflettere tutti noi che viviamo in queste epoche di grande sperpero e di grande confusione.   

Il libro racconta ancora della fanciullezza e della “giovinezza” della nostra protagonista, i lavori fatti a soli nove anni nel ruolo di “criata” nelle famiglie abbienti, i lavori fatti ancora in campagna a raccogliere carrube e olive facendo parte della “çiurma dei raccoglitori”.  E racconta ancora come a soli quindici anni, in una di queste occasioni,  aveva conosciuto quello che sarà suo marito, “Memmu Trovatu, detto ‘u  Sutturi”. Importante l’uso del soprannome, perché nei tempi andati le persone venivano riconosciute solo con il sorpannome: Trovato ne esistevano tanti, ma “Sutturi” ce ne era uno solo. Con lui  rimase “fidanzata” per cinque anni,  tenendo i contatti solo con gli occhi,  da lontano, inviandosi messaggi solo per mezzo degli amici.

Leggendo questo libretto, capiremo come  si svolgeva un fidanzamento, a quei tempi tenuto nascosto e segretissismo, e sapremo ancora come si svolgeva il matrimonio dei poveri in Chiesa:  il matrimonio della nostra Rusina che indossava  un vestito bianco sì, ma fatto con la seta di un paracadute. E soprattutto senza anelli, perché non avevano i soldi per acquistarne uno. E continuando ancora, ormai lavoratrice all’interno dei grandi magazzini che selezionavano prodotti agricoli, iscritta al partito comunista e alla CGIL, parteciperà attivamente agli scioperi contro i padroni,  che non intendevano pagare i contributi. Una sorta di Maria Occhipinti sciclitana.


Cosa ti ha colpito di più di questo libro?

Quello che colpisce di più in questo piccolo libro è la povertà, e soprattutto la “accettazione” della povertà e delle sventure. Povertà endemica.  Una “lotta continua” quotidiana, contro i bisogni. Necessità assoluta di adattarsi alla realtà. Fra tutte le cose fa impressione la guerra che i questi poveri improtetti socialmente erano costretti a combattere quotidianamente contro lo spettro della fame. Fame e sofferenze sono i motivi ricorrenti del libro. Vediamo  insieme  alcuni passaggi:

  • “Aviemma a travagghiari ppi forza. N’aviemma a dari ri viersu, macari chiddi ra naca. Stapiennu a casa muriemmu tutti ri fami”.
  • Havia nov’anni. Nun ci vulia stari a fari a criata. Ma, a casa c’era fami.
  • Stu travagghiu u sicutai a fari finu a 14 anni. Nun mi piacia, ma avia fari pi forza. Pirchì a casa c’era fami nivara.
  • Mi ravunu cincu liri o misi e ddui munnia di frummientu, però, ma matri cu sti rui munnia ri frummientu m’havia a ddari u pani ppi tuttu u misi e binievunu  tri cuddureddi a simana pi tutta a famigghia. Nta sta famigghia unni travagghiava comu criata a nov’anni mi facieuno lavari i stissi linzola miei, ma facìa pacienzia perchì se nun ci vulia stari, a casa  c’era fami nivara.
  • Era na simana ri Natali, na simana ri friddu ca stapiemmu muriennu tutti, ma p’amuri ri uscari sordi, faciemmu pacienzia tutti.

Gino, scusa, ma non aveva un padre la nostra Rusina, e la madre non andava a lavorare?

La madre, come scrive Rusina, era sempri “prena e figgliata, e novi figghi fìcia”, famiglia piena di figli che la madre non avrebbe potuto portare con sé sul posto di lavoro. Né avrebbe avuto a chi lasciare tutti questi bambini. Il padre, c’era, ma  solo per l’anagrafe - aggiunge lei -. Era un grande lavoratore, ma quando la sera tornava a casa, era sempre “mpacchiatu”, cioè ubriaco. Spendeva a vino i soldi guadagnati nella sua giornata di lavoro.  In altre parole, non si curava dei figli, né della famiglia.” Diamo ancora la parola alla scrittrice:

  • Magginativi chi miseria aviemmu nta casa. E ma patri ca s’arricugghia sempri ’mbriacu, ca ni inchiemmu i panzi sulu che barzelletti ca cuntava, ca chissi i sapia cumminari.
  • Niavitri, tutta a famigghia parieumu ri luttu, tranni ma patri ca s’arricugghia sempri mpacchiatu (ubriaco) e a matina sinni jia sempri a travagghiari. Menu mali c’haviemmu a ma nannu, u patri ri ma matri, ca nun ni lassava, né notti,  né gghiuornu, e tutti misi a munzieddu, pirchì a casa era picciridda.  
 Povertà? potremmo dire miseria?

La parola “miseria” ha linguisticamente sfumature diverse. La miseria porta con sé il concetto di sofferenza, e soprattutto  di sventura, di infelicità, di squallore che chiama in causa il concetto di tragedia. Nel termine “miseria” è compreso il sentimento di compassione. Rusina e la sua famiglia non chiedono compassione. Paradossalmente, suscitano ammirazione.

Questa famiglia non è misera, anzi, è costituita invece da veri guerrieri della vita, personaggi potenti nella loro capacità di reagire alle sventure, alla sorte, al destino. Sono personaggi che “accettano” tutto, e  si adattano a tutto. Che sopravvivono con niente. E nel sopravvivere, nella loro decisa determinazione a sopravvivere, risultano vincitori.

Con tutto ciò, ci sono nel libro momenti in cui senti che la sventura ha il colore della tragedia. C’è un evento che non manca di commuovere il lettore. Ecco cosa racconta la nostra “Rusina” ed è documento sconosciuto di microstoria .

  • Na ssi jiorna a na vicinedda i casa ci va mora ‘n-picciriddu ra stissa età ri ma frati. E siccuomu cci murìu ri ruminica, nun-havia comu vistillu e vosa ssiri “accumutati” i robbi ri ma frati e nni rissa: “Appena puozzu, ti ci cattu”.

Si evince che il bambino morto non aveva i “robbi”, e la madre non voleva sotterrarlo nudo.  Ed è vero che a quei tempi i bambini era possibile incontrarli completamente nudi per strada.

Ma, per capire da dove discende il concetto di prestito “re robbi” è necessario con-legare il tutto con una storia collaterale, che la narratrice ci racconta. Rusina aveva un fratellino che si era ammalato di enterocolite, che a quei tempi nessuno avrebbe potuto curare non essendo stata scoperta la penicillina. Tant’è che da otto chilogrammi che pesava all’età di un anno, si era ridotto a un “ruotolu”. Ruotulu era la misura siciliana che corrispondeva a 800 grammi. Cadaverino vivente che stentava a morire. Dunque, i “robbi”  che aveva non gli  stavano più bene addosso. Per questo, la “vicinedda” di casa chiedeva il prestito che poi prometteva di restituire.     

Va rilevato l’uso del diminutivo “vicinedda ri casa” per indicare la vicina, che sente di potersi rivolgere alla madre di Rusina per vestire il bambino morto. Richiesta che viene esaudita, perché “a ddi tiempi” ne vaneddi ierumu comu parienti”, e si aiutavano per come potevano. E poi c’era una promessa che sarebbe stata mantenuta: “Appena puozzu, ti ci cattu”.

Gino, scusa se ti interrompo, ma ci sono Autori, poeti conosciuti che hanno parlato/descritto questi momenti tragici di un popolo di cui nessuno parla?

C’è una poesia, di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, parlo di Giuseppe Gioacchino Belli, poeta romanesco vissuto nella prima metà dell’Ottocento che in una poesia titolata la “Famiglia poverella” immagina una madre che abbraccia la sua nidiata di bambini che si attaccano a lei, e si lamentano per la fame e chiedono da mangiare. Allora, nella prima metà dell’Ottocento lo Stato Pontificio era “il peggio” 
governato in Italia. La madre disperata perché non ha nulla da dare, si rivolge alla Vergine der Pianto Addolorata, si rivolge ai santi e si esprime con queste parole che ne mettono in luce lo strazio:

La famijja poverella

Quete creature mie stateve quete
Si fiji, zitti, che mommò viè ttata (papà).
Oh, Vergine del Pianto Addolorata
Provedeteme voi che lo potete.

Nò, viscere mie care, nun piagnete,
Nun me fate murì cussì accorata
Lui quarche cosa l’averà abbuscata
e pijeremo er pane…  e magnerete.

Si capissevo er bene che vve vojio,
Che dichi Peppe? Nun voi sta a lo scuro?
Fijio, com’ho da fa si nun c’è ojjo?

E tu Llalla che hai? Povera Lalla,
Hai freddo? Ebbè, nnun méttete llì ar muro
Viè in braccio a mmamma tua che tt’ariscalla.

                                                Giuseppe Gioacchino Belli              
                                                                     Roma,  1826      
                                                                 settembre 1835  

Qui, il discorso ci porterebbe lontano, ma è certo che i quattro cavalieri dell’Apocalisse si accanivano con i poveri.

I Cavalieri dell’Apocalisse non guardano in faccia nessuno, e certo, oltre alla fame c’erano altre sventure, malattie che a quei tempi non si  potevano curare, tifo, malaria che fino a settant’anni fa erano endemici in Sicilia.  E la madre di Rusina si sbatteva la testa al muro mormorando: “Ma comu hagghia a-ffari si sordi nunn’hagghiu.

Si racconta dunque della povertà di una delle tante famiglie povere di un’epoca oggi lontana, e degli éscamotage cui dovevano ricorrere per racimolare quel pezzo di pane quotidiano, che ci fa capire il perché questa richiesta faccia parte di una preghiera, l’unica che Gesù ha consegnato ai suoi seguaci, nella quale è detto “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.

Nel  libro “Rusina, la mia vita” si evince che ogni personaggio è parte di una struttura che è la famiglia, nella quale “uno è per tutti e tutti erano per uno”. Nel senso che si aiutavano, cercavano di sostenersi reciprocamente.

Memoriale, dunque, ma soprattutto scrigno di informazioni e notizie importantissime, che la “Storia ufficiale”, quella con la “S” maiuscola, ignora, non considera, non tramanda.


 Ma, quale era in passato la forza contrattuale del popolo minuto nei confronti dei datori di lavoro?

La forza contrattuale della povera gente nei confronti di latifondisti, benestanti, manomorta della Chiesa, era “zero”. Basti pensare che erano i ricchi a fissare il prezzo per una giornata di lavoro di contadini, curatoli, vaccari, carrettieri, raccoglitori di carrube, olive, mandorle. E la giornata non aveva orario. Si lavorava dall’alba al tramonto del sole. E per essere sul posto di lavoro all’alba, i lavoratori erano obbligati ad alzarsi al buio e a recarsi a piedi sul posto di lavoro.  

“Si partìa ra casa che setti matinati (per dire, prestissimo) e a sira si turnava cu tririci parmi ri scuru” (per dire, buio pesto).  (p. 31)

Qui, Rusina riferisce di se stessa, ma in altra parte del libro, la nostra scrittrice riporta la storia di un “pattu” di lavoro  fatto da “don Pippinu u Bagghiuòlu“, storico factotum (uomunu ri firucia)  del cavaliere Bonelli di Scicli, che aveva il palazzo (’u palazzu) in via Mormino Penna, accanto alla chiesa di San Michele di fronte al palazzo del Barone Spadaro.

Lui, Memmu,  disoccupato, ma ormai sposato con Rusina, si presenta, “co tascu nta manu”, al potente Peppinu Bagghiuolu che gestiva i beni della famiglia Bonelli:

“U salutau, sabbenarica, ci rissa ca vulia travagghiari, sapia ca circava n-carrittiieri, si parraru, Don Pippinu u Bagghiuolu su purtau nta carretteria ppi faricci virri u carrettu e a mula, e ci rissa: “Chistu èni u carrettu, chisti su l’armigghi (bardatura, finimenti), e cca c’è ’a mula.  I patti su’ chisti: 4 tummana e dui munnia ri frummientu, 500 liri o misi, ”notti e gghiuornu”.  E siamo ai primi anni dopo la seconda guerra mondiale. Non siamo alla preistoria.

L’incredibile, per noi che viviamo in questi giorni dorati, protetti da mille diritti, è il fatto che il carrettiere e la mula, addetti al trasporto di carrube,  frumento, frasche, paglia e quant’altro, lavoravano in continuazione, notte e giorno. Il lavoro non aveva pausa. Al carrettiere non era concesso dormire nel suo letto. Era consentito passare da casa sua una volta ogni 15 giorni “pi canciarisi i robbi”. Il carrettiere poteva appisolarsi sul carro quando la mula aveva imparato la strada. Ma, anche l’animale aveva i suoi guai, perché gli “armiggi”  di cuoio e senza imbottitura, non venivano mai tolti, né di giorno, né di notte, tranne quando le ferite (i crosti) sulla pelle dell’animale si suppuravano”.

Questi “patti” (leonini) venivano applicati ai carrettieri, e ricordano epoche di passata schiavitù, pervenute fino a noi dalla notte dei tempi. E non vengono riportati dalla Storia ufficiale.  

In ogni caso, la remunerazione per contadini, caprai, vaccari, carrettieri, era appena sufficiente per sfamare il lavoratore, non la famiglia del lavoratore. E va ricordato che nei mesi invernali, e fuori dal periodo della mietitura e della raccolta di olive, carrube o mandorle, non c’era lavoro per nessuno. Ed era proprio nei mesi invernali che i poveri soffrivano non solo per il freddo, ma anche per la fame.

Quanto racconta la signora Rusina, è stato raccontato a chi scrive, dallo stesso signor Trovato, il marito di Rusina, in una amichevole conversazione sul suo passato. E aggiungeva, sempre amaramente, parlando della sua esperienza di giovane pecoraio a Munzuvili (contrada di Scicli):

“Nun c’era né notti né ghiuornu. Sempri mali vistuti, e sempri vagnati, e puoi a notti si facìa ‘n-fuosso nta pagghia ppi cauriarini.. e i robbi nun si canciavunu mai arattu ca ni carievunu ri n-cuoddu”.   

Per quanto riguarda la paglia, come mezzo che sostituiva il materasso (anch’esso riempito di paglia) vedi  Vincenzo Rabito nel suo “Terra matta”.

Mancanza di diritti e povertà, fame e freddo andavano tutti insieme. Tanto è dimostrato ancora dal fatto che quando Rusina partorisce la prima volta in casa, con l’aiuto di una vecchietta “viçinedda ri casa”, il marito non è presente perché è al lavoro in campagna, e non c’era legge che contemplava il diritto di allontanarsi dal posto di lavoro neppure per questo evento speciale. E quando un amico gli porterà la notizia in campagna: “Si’ patri ri na bedda picciridda”, “Memmu u Sutturi” correrà dalla moglie per farle una visita, ma di notte, usando una bicicletta che gli era stata data in prestito (accumutata) da un amico. Dunque, per pochissimo tempo (tiempu ’na fatta ’i cruci), rubando il tempo al padrone (si chiamava proprio così, “u patruni”). Ma, in casa non c’è nulla da mangiare, e Rusina dopo il parto ha fame, e chiede al marito di aprire un cassetto della buffetta, dove si dovrebbe trovare un tozzo di pane duro che lei mangia avidamente  (“comu ’na ’llamata”).


Però, nel libro c’è spazio per altre testimonianze, molto interessanti per noi? Curiosa la notizia dove candidamente parlando di un suo nonno, Rusina ci dice che era figlio di un prete.

Va sottolineato il candore di Rusina nel dire che suo nonno Vitturinu,  ”chiddu ca nni facìa ri patri”, era figghiu di preti. E la storia, altrettanto semplice era che la madre di suo nonno, andando in chiesa, “forse che era nata una simpatia con questo prete” che si chiamava Don Giuorgi ed era modicano, e ricìa a missa a Scicli.

“E, comu fu e comu nun fu, a sta mamma ri ma nannu a misa nginta, e a ddi tiempi nunn’è ca ri sti cosi si ni parrava. Ntantu nasciu stu picciriddu. Idda ca era schetta a cu-è c’avìa circari p’aiutu? A nuddu. E su criscìu sula, senza patri”. Stu preti fìcia tuttu a chiddu ca siminau e partiu. Allura chi succiriu? Ca misa nginta a n’autra (picciotta). A stissa cosa. E fu masculu macari, e senza patri. Però, crisciennu, sti picciriddi erunu frati. Tutti-rui ro preti.

Qui, la nostra Rusina rivolge la sua attenzione su un fatto di cui nessuno parla. Una volta alcuni preti non erano vocati alla castità, e accadeva anche che i bambini illegittimi venissero portati nottetempo alla “ruota”, e lì gli veniva attribuito un nome e un cognome, che poteva essere “Beato” (perché figlio di prete) o, più comunemente “Trovato”, a Scicli, “Esposito” a Napoli, perché era stato “trovato”, abbandonato, e così via. Spesso si trattava di figli di nobili, altre volte di preti o di monache. Ma, bisogna leggere la storia proprio così come la racconta Rusina. Perché, il prete don Giuorgi, da buon padre, tiene rapporti quasi normali con i figli, privilegiando però solo uno dei due. E questo non era Vittorino.

10. Decima domanda: Quando avverrà il riscatto?

    Il riscatto avverrà subito dopo la seconda guerra mondiale, dopo il 1945, quando il popolino scassinò la sede del “Dopolavoro dei Cavalieri”. Un circolo dove i nobili (i puorci ruossi, erano stati battezzati) trascorrevano il loro tempo, s-parlando di tutto e giocando a carte”. Un simbolo negativo per il popolo. Una sorta di piccola odiata Bastiglia. Il locale era “arredato con affreschi, lampadari, specchi, divani, poltrone, era un sogno, e puoi c’era una sveglia che era uno spettacolo. A tuttu chistu, quannu ci scassarru, addivintau ca a-ristruggierru. E infatti a spacciarru. ca ci ficinu l’uffici e divintau sintacatu dei lavoratori. Allura, p’addivintari noscia ci fuorru magari arrestati e si ficiunu a galera, tranni unu ca ci scappau e ma matri u rifuggiau na casa nostra, e u tinna no sularu pi uottu jorna.Pirchì passannu tri gghiorna, nun lu putievunu arristari e ccussi si iavitau a jalera. Allora furono formati i partiti. Tannu erunu tri: democrazia cristiana, socialista e comunista. (…) A tuttu chistu (...) u partitu comunista era ’u partitu dei lavoratori e chiddi ca ni rapierru l’uocchi pe diritti… ca prima ri spursarini mancu si nni parrava, pirchì ai datori di lavoro se ci nni parraunu di fuogghi incaggi ni licenziavunu.”

E continua la nostra Rusina raccontando delle lotte sindacali combattute con i datori di lavori, di scioperi e astensioni dal lavoro, per avere pagato lo straordinario. Scioperi che lei stessa organizzava appoggiandosi ad una sindacalista, donna carismatica, che era Carmilina a Tignusa.

Rusina racconta come se i fatti del passato non le appartenessero più. Il distacco è impressionante e ammirevole.


Proprio così! Rusina racconta mettendo nero su bianco su fogli di misura diversa, ma è felice, come colei che si è salvata da un naufragio in mare. Oggi rivede il passato. Racconta delle sue tre figlie, tutte sposate che l’hanno arricchita di tanti nipoti che stravedono per lei. Nipoti che ormai sposati, l’hanno fatta diventare trisavola. Felice perché con il loro onesto lavoro lei e suo marito hanno potuto acquistare una piccola casa di proprietà a Scicli in via Dalia n.  ,  e un’altra bellissima, anche se modesta casa hanno potuto costruire in campagna, dietro l’ospedale di Scicli, a “Licuzzia”. Felice, perché è circondata da amici che la adorano e pendono dalle sue labbra quando lei racconta le sue storie. Felice ancora perché ha contribuito a tener su insieme alla sua adorata Maria Teresa Spanò  (a professoressa) il gruppo “Energia & Simpatia” dove lei può realizzare la passione della sua vita, che è il canto.

                                                                                                                      
Il canto? Questo è un punto importante della sua vita.

E’ un momento importantissimo della sua vita. Rusina aveva una bella voce e ha sempre cantato e gioito con il canto. Cantava da piccola quando tutte le sere raccoglieva sotto il lampione della sua stradetta i bambini della zona e li tratteneva cantando e organizzando finti spettacoli di bambini. Questo perché, come scrive lei stessa: “Iu ieri ’na capa”. Era una organizzatrice. Ma, avevano scoperto l’importanza del suo canto anche i datori di lavori. E quando lei lavorava nei magazzini dove si selezionava la frutta, a lei sola era consentito cantare per tenere alto lo spirito dei lavoratori. Cantava circondata dal religioso silenzio degli altri lavoratori. Questa sua passione per il canto è stata la sua fortuna, il conforto della sua vita e quello che riusciva ad addolcire le amarezze della sua non facile esistenza.     

E’ possibile vedere un rapporto fra questo libretto di Rusina e “Terra Matta” di Vincenzo Rabito?

Rapporto? Ci sono molti punti in contatto, anche se fra i due ci sono ventinove anni di differenza. Rabito è nato nel 1899, Rusina nel 1927. Ma, per quanto riguarda la situazione sociale dei lavoratori non era cambiato nulla. Nei trent’anni di differenza non era accaduta nessuna evoluzione sociale. I poveri combattevano la loro guerra quotidiana contro la fame nell’Ottocento, e lo stesso era ancora fra le due guerre mondiali. E se anche qualcosa era cambiato sotto il fascismo, i cambiamenti non erano stati avvertiti dai poveri in questa periferia d’Italia. Dunque, sia Vincenzo Rabito sia Rusina sono soggetti “alfa” per intelligenza, ma socialmente sono proprio elementi che la sociologia definisca “Omega”. Dunque, ultimi nella scala sociale di quel tempo   

                                           Gino Carbonaro