2017/01/26

Giuseppe (Uccio) Barone: gli Iblei nella GRANDE GUERRA





Gli  Iblei  e la "Grande Guerra"

Rievocazione della "Grande Guerra" a distanza di un secolo

Grandi Guerre, Grandi Banche, Grandi Scrittori 

Una "Contro-Storia" 
della Prima guerra mondiale 

scritta

Dal prof. GIUSEPPE BARONE


Gli Iblei nella Grande Guerra di [Barone, Giuseppe]



















                  Copertina dell'opera
    
     Delle guerre, sappiamo quello che si legge nei manuali di storia, a scuola, e quello che raccontano giornali e televisioni. Ma, parole e immagini, nomi di re, battaglie e imperatori non dicono tutto di un evento. Chi legge riceve informazioni fredde che spesso giungono da tempi e spazi lontani. E se qualche notizia è tale da disturbare la sensibilità di chi legge, difficilmente sconvolge la routine della nostra giornata.

    Della “Grande Guerra”,  i libri raccontano che un giovane serbo, diciannovenne, di nome Gavrilo Princip, il 28 giugno del 1914 uccise a colpi di pistola l’arciduca Francesco  Ferdinando, principe ereditario al trono austro-ungarico, in visita ufficiale a Sarajevo (Bosnia). Da quei primi colpi di pistola mirati alla fronte di un uomo (non l’avesse mai fatto!) si provoca una reazione a catena che innesca la più grande guerra di tutti i tempi. Conflitto che fece esplodere il mondo. Catastrofe che provocherà lutti e sofferenze incredibili per l’umanità. Massacri provocati da sopiti desideri di rivalsa, volontà di sopraffazione, interessi economici e ideologie contrastanti, e da mille altre cause custodite nel codice genetico del genere umano. Guerra che scompigliò le economie degli Stati, e sconvolse il tessuto sociale del tempo. Obiettivo? Sterminare un “nemico” per rendere più potenti i vincitori. “Bellum omnium contra omnes”. Guerra di tutti contro tutti, l’avrebbe definita Thomas Hobbes. Conflitto! Dove agli umani viene fuori il primordiale istinto di aggressione animale: la volontà di rappresaglia contro il suo simile. Per questo, dopo la Prima Guerra Mondiale nulla tornerà come prima, se si pensa che uscirono dal teatro della storia quattro potenti dinastie imperiali: gli Czar di Russia (cancellati dalla rivoluzione del 1917),  gli imperatori di Asburgo d’Austria-Ungheria, gli Hohenzollern di Germania e l’Impero Ottomano.

    Per una guerra che generò fiumi di sangue, e sconvolse il globo terrestre, i richiamati alle armi furono 60 milioni. Al marasma che fece seguito all’omicidio di Sarajevo (considerato il “Casus belli”, insignificante fiammifero che dà origine a un incendio),  l’Italia non poteva chiamarsi fuori. Perciò dichiara guerra all’Austria.  E fu evento che vide la più bella gioventù armata di moschetto, costretta ad uccidere per non farsi uccidere. Conflitto! Dove la posta in gioco  era la vita. La promessa ricompensa, per ogni soldato? Una medaglia di metallo al valor militare, e, nel migliore dei casi, il proprio nome scolpito in aeternam rei memoriam, su un monumento ai “Caduti di Guerra” nella piazza del proprio paese.

    Combattevano tutti come leoni - scrive il prof. Giuseppe Barone - quei baldi giovani, per diventare eroi, ma qualcuno dalla Gran Bretagna fa eco con sarcasmo, che di leoni si trattava, ma comandati da asini. Questo, per ben fissare il concetto che la vita di un soldato in guerra era spesso nelle mani di imbecilli privi di scrupoli che usavano gli uomini come carne da macello.

   Con la dichiarazione di  guerra, comincia in Italia una massiccia propaganda per giustificare la necessità del conflitto e far capire ai giovani che andare a combattere significava salvare l’onore della Patria e della propria famiglia. Tutto questo mentre i futuristi e l’ “intellighenzia”  del tempo decantavano la bellezza della guerra considerata “sola igiene del mondo” e auspicavano un “tiepido fumante bagno di sangue”, che - si disse - avrebbe cancellato la mediocrità del presente. Come è possibile vedere: “La follia gestiva le menti”.

    Per questo evento, il ministero della guerra richiamò alle armi 5 milioni di italiani, il fiore della gioventù, un sesto della popolazione nazionale, e registrerà in seguito 650 mila caduti, e oltre un milione fra dispersi, prigionieri e vittime della spagnola. Questi i dati. Ma, le cifre appena riportate non dicono della sofferenza umana di quei soldati abbandonati notte e giorno in mezzo al fango, alla pioggia e al gelo, costretti a convivere con lo spettro della morte. Questa è storia che non interessa le statistiche.

     Diverso è il punto di vista dello storico ibleo prof. Giuseppe Barone, il quale sostiene, a ragione, che la vera storia della “Grande Guerra” può essere conosciuta solo se si interroga chi l’ha vissuta. Solo se si fruga negli archivi locali e si rileggono i numerosi diari di guerra scritti da chi voleva lasciare una testimonianza, disperata, di quella che fu la sua vita in una guerra di trincea, di quella che fu definita “la più grande catastrofe umana dell’era moderna” prima di un’altra guerra mondiale.

    Ad aprire inediti squarci di luce su questa realtà, dando vita a una “contro-storia” della Grande Guerra, è il prof. Giuseppe Barone nella sua ultima, magistrale opera titolata gli “Iblei nella Grande Guerra”.

    Si tratta di un lavoro richiesto all’illustre storico dalla Banca Agricola Popolare di Ragusa, che nella ricorrenza del Centenario della Prima Guerra Mondiale ha inteso onorare la memoria di quei giovani soldati Iblei che hanno dato il loro tributo alla guerra. Progetto di inestimabile valore storico, che ha messo in luce una parte di realtà poco conosciuta sino ad ora. Ricerca storica che mancava in questa terra degli Iblei.

    Parte da qui l’attenta ricerca del nostro “Uccio” Barone. Fatica immane, la visione di diari, lettere, fotografie e documenti di quanti, dalle trincee hanno messo per iscritto quello che doveva sopportare un soldato che combatteva una guerra alla quale cominciava a non credere. Soldato che non capiva perché combatteva e per chi combatteva. E soprattutto perché avrebbe potuto e dovuto morire.

    Nella ricerca, un supporto importante è dato dall’ “Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano” che dal 1999 raccoglie diari di guerra, oltre che dall’archivio storico del Comune di Ragusa e da documenti custoditi da famiglie che un secolo fa hanno avuto antenati in guerra. 
   Eccezionale ancora, a corredo del libro,  la documentazione fotografica che proviene da collezionisti privati, quasi tutti locali, e da Musei e Archivi di Stato.
   
    Qui di seguito l’apertura del prof. Barone che analizza gli eventi alla stregua di un antropologo.

    “Nonostante la propaganda e la pedagogia patriottica elaborata dalle classi dirigenti, per milioni di combattenti l’idea di Patria resta un concetto incomprensibile o si identifica con l’odio e il disprezzo verso le autorità politiche e militari responsabili di mandare i giovani a morire in prima linea (…), per questo, caporali e sergenti vigilavano sugli umori delle truppe, stando sempre all’erta per il rischio di ammutinamento nei battaglioni”.

     Ed è proprio il tenente Emanuele Distefano, ragusano, a riferire di disertori che durante gli attacchi si fingevano morti per sottrarsi agli scontri. Per questi veniva applicata la fucilazione sul campo che però non funzionava come deterrente al malcontento diffuso”.

     A prova di quanto si è detto, il nostro Distefano scrive: 

“Si doveva passare per le armi un disertore. Perché l’orribile spettacolo fosse di monito ai soldati, il colonnello Regazzi volle che tutto il Reggimento fosse presente (...) Quando l’eco della fucileria rintronò cupamente nella valle, e l’infelice si accasciò al suolo, tra i soldati serpeggiò un fremito di vendetta”.  

    Di fatto - scrive il prof. Barone - i nemici che aveva il soldato erano due, entrambi temibili: uno era il nemico vero che stava davanti, al di là della trincea, l’altro era rappresentato dagli Alti Comandi, dalla disciplina spartana, e dai carabinieri che dietro le spalle avrebbero fucilato i disertori. Erano questi i segni che non davano al soldato il senso della Patria.

     Sulle condizioni dei soldati, vale ancora la testimonianza del sopra ricordato tenente Distefano che testimonia sulla vita dei soldati: 

    “Di notte, la baracca assumeva l’aspetto di un covo di animali. L’aria appestata da odori nauseanti era irrespirabile. Alcuni russavano a terra. A destra e a sinistra i miei soldati giacevano nelle posizioni più sconvenienti ed emanavano una puzza che dava le vertigini. Quelli che stavano sulle tremanti cuccette superiori lasciavano cadere su di me fango e pidocchi”.

     In così precarie condizioni igieniche, sottonutrizione e qualità scadente del vitto - rileva il prof. Barone -  era inevitabile la diffusione di malattie infettive: colera e tubercolosi, infezioni intestinali, polmoniti e altro che decimavano i reparti.

     Nota ancora il prof. Barone che il soldato è costretto su un terzo fronte a combattere un’altra guerra: contro invisibili microbi e batteri che facevano strage più delle artiglierie e dei gas asfissianti.             

    Qui ancora, un’altra testimonianza del soldato Angelo Di Stefano, scalpellino di Vittoria che nel suo diario annota: 

     “La giornata era piovigginosa. Noi eravamo tutti bagnati fradici. Sdraiati pancia a terra sul fango. Come porci. Tra il freddo dell’acqua e la paura della morte tremavamo da capo a piedi.  Sembravamo le pecore del macellaio destinate al coltello. Quando viene ordinato l’attacco, nessun capello sulle nostre teste era in forma naturale. Erano rizzati come chiodi. Era la morte che ci compariva (...) Né il Vesuvio, né l’Etna cacciavano tanto fuoco come le mitragliatrici, fucili, bombe, shrapnel nemici, mentre le granate lanciavano in aria corpi umani frantumati (...) Il suolo era un pantano di sangue che si mescolava con l’acqua. E tutto si colorava di rosso. Oh Dio! Se è vero che esisti come puoi permettere tanto! E aggiungi ancora.. “ i lamenti dei moribondi e le grida dei feriti che laceravano il cuore. Ma chi poteva soccorrerli? In quei momenti ognuno pensava per sé.  Ubbidendo agli ordini, tanti erano i soldati che andavano all’attacco, e tanti restavano stecchiti sui reticolati. Ci sentivamo al patibolo”.

     Nessuno storico di professione ha mai riportato per iscritto documenti così veri e crudeli. Ma, questa è la guerra! Ed è questa la vera storia della follia umana che scatena i conflitti.

    Di fronte a questa realtà -  continua il prof. Barone - colpisce la compostezza e la coralità con cui si condividono il dolore e il lutto nella famiglia allargata, l’accettazione della sorte avversa come una variabile assegnata dell’esistenza.  

    E continua all’interno del libro, riportando passi di "Terra Matta" del chiaramontano Vincenzo Rabito, il quale “penzava che il latro covermo mi aveva chiamato per antare a farimi ammazzare”. 

     Come dire - aggiunge il prof. Barone - che l’arrivo della cartolina-precetto, a livello popolare, veniva percepita come una violenza dello Stato contro la povera gente.

     E, amaramente continua Rabito “.. in pochi ciorni sparava anch’io e ammazzava come uno brecante (…) In questa carneficina che ci a stato deventammo tutte macellaie (...) Più non erimo soldate cristiane. Erimo tutte diventate pazze. Che magare certe volte ni sparammo tra noie, perché non sapiamo dove era il nemico (...)
     Il solo nostro conforto era la bestemmia a tutto l’ore, d’ognuno con il suo dialetto. Chi butava bestemie alla siciliana, chi li botava vénite, chi le botava lompardo, e chi era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noie era il vero conforto.

    Cosa aggiungere ancora? Che il libro ha tante chiavi di lettura.  Chi legge si trova per prima cosa di fronte ad un’opera letteraria, subito dopo rileva l’opera di storia vera, che nasconde un intendimento: quello di dimostrare che questa “Historia magistra vitae est!” (la storia è maestra di vita).
     
     Leggendo questo libro comprendiamo meglio chi è l’uomo, la sua psicologia, la sua potenziale cattiveria, il menefreghismo delle classi dominanti, la sofferenza che è costretta a soffrire da sempre la classe subalterna, e ci fa chiudere dicendo che questa è la vita!.

      Che dire del suo Autore? Che “Uccio Barone” in questo libro ha messo l’anima. E chi legge, come è accaduto a chi scrive, può in molti passaggi ritrovarsi gli occhi lucidi di commozione. In ogni caso va rilevata la struttura dell’opera, la prosa coinvolgente, una magistrale interpretazione dei fatti. 
        Una opera che va considerata un ritratto di famiglia, diciamo di questa nostra provincia (che durante la guerra mondiale  non era provincia). Questo il suo dono fatto a tutti noi. 

      Un elogio dunque (atto dovuto) che viene da estendere ai dirigenti della Banca Agricola Popolare di Ragusa che hanno creduto e investito in questo meraviglioso progetto.         

                                         Gino Carbonaro